Un perfetto sconosciuto
Sara era solita rinchiudersi nel suo studio, quando doveva riflettere su qualcosa.
Non amava aprire le finestre e lasciava che la luce filtrasse dai fori dell’avvolgibile, trapassando i tendaggi. Così la stanza s’illuminava appena. Abbastanza, direbbe Sara, il tanto sufficiente da poter leggere i suoi giornali e i suoi libri, per scrivere i suoi appunti. Sara scriveva soprattutto alla tastiera del pc e questo faceva sì che fosse lo schermo dello stesso a illuminarle il lavoro.
Quella mattina però, c’era un intruso sul tavolo, un foglio bianco su cui si distingueva una breve relazione, e in fondo alla pagina un timbro, un nome scarabocchiato e indefinito. Ma non è ancora lui il nostro perfetto sconosciuto.
Un’ellissi di luce sostava su quella diagnosi, asettica come la comunicazione che Sara ricevette la sera prima, fredda al punto che si sentì ancora percorsa da un brivido lungo la schiena e allora pensò che lei, quella mattina, avesse proprio bisogno di più luce, di prendere un po’ d’aria, come si dice.
Si lasciò addosso i vestiti che portava, una minigonna di jeans che mostrava i nuovi collant dai motivi floreali, acquisto di cui andava orgogliosa, una camicia bianca a cui aggiunse un giubbino leggero perché a Cagliari, ad aprile, c’è già tanto caldo e lei era sicura che avrebbe finito per toglierlo in qualche vicolo assolato del centro. Una linea di eyeliner e un po’ di mascara, un lucidalabbra rosé e niente più, perché Sara era bella, bellissima, non aveva bisogno di grandi ritocchi, né di altezze vertiginose su tacchi improbabili, lei aveva un portamento naturale invidiabile, per cui le bastarono delle ballerine piuttosto sportive ai piedi. Il resto lo avrebbe fatto la sua lunga chioma corvina.
Sara sapeva bene, dove si stesse dirigendo, solo che finse anche a se stessa di capitarci per caso, finendo in quel Caffè di via Roma, uno dei tanti, dopo una lunga passeggiata lungo il porto, con quella brezza marina che le riempiva di salsedine la pelle. Si disse che sotto le palme, il sole si prende meglio, che i versi dei gabbiani ti cullano in un relax dai colori caraibici e il traffico, beh, i rumori del traffico, dopo un po’, non danno più fastidio, fanno parte della cornice.
A servirle al tavolo fu come sempre Luca, un bel ragazzo, gentile, che, diciamoci la verità, moriva per lei, e si abbandonò alle sue solite piccole attenzioni. Sara aveva ordinato un cappuccino e un’acqua tonica – con limone, rigorosamente – e aveva preso il giornale locale, L’unione Sarda, lasciato ripiegato su un altro tavolo. Da giornalista, lei iniziò a disgustarsi per ogni virgola fuori posto, per le notizie lanciate nelle prime pagine come le urla del pescivendolo del Mercato di San Benedetto, in cagliaritano stretto ovviamente, e ancora, in quel caso, si potrebbe aggiungere che mantenga la sua esotica dignità. Ecco, pensò, è lì che dovrebbe finire quel quotidiano, a incartare il pesce.
Sara, scostando il giornale, si accorse di un cuore di caffè sulla schiuma e un cioccolatino malizioso sul piattino della tazza. Sotto la stessa, c’erano un biglietto e un banale complimento: “oggi sei ancora più bella”, aveva scritto Luca con la stessa penna con cui prendeva gli ordini. Lei trovò la cosa molto patetica e nonostante lo snobismo, accolse lusingata l’apprezzamento, compreso l’occhiolino a distanza del ragazzo, che chiuse il tutto con un non so che di assolutamente pietoso.
In fondo, a Sara non sarebbe dispiaciuto passare le sue dita tra quei ricci, lasciarsi avvolgere da quelle braccia e quelle cosce tornite e solide, benedicendo il sabato del calcetto che li cresce così generosamente virili. In barba alla filosofia, si apriva un ampio ventaglio di possibilità, per così dire, e del resto, perché giungere sino a quel Caffè?
Luca salutò i colleghi, era finito il suo turno e si era già fatta l’ora di pranzo. Sara lo fermò all’uscita, dicendo: «Dove vai ora? Hai da fare?». Luca si meravigliò di quel gesto d’attenzione, in effetti, lei non gli aveva mai rivolto la parola se non per ordinare qualcosa, così, sorpreso, le rispose quasi imbarazzato: «No, cioè, vado a casa». Lei continuò: «Ti va di farmi compagnia? Sono sola per pranzo». Luca non comprese esattamente cosa stesse succedendo: «Possiamo prendere qualcosa qui». «Ma no» disse allora lei, «a casa mia staremo più tranquilli». Luca decise di stare al gioco, insomma, quale occasione per lui che la corteggiava a modo suo da diverso tempo, e lei, che le sembrava ogni giorno di più irraggiungibile, per quell’atteggiamento distaccato e altero che Sara si portava addosso. Presero l’auto di Luca, Sara era arrivata lì a piedi, e a quell’ora uscire da via Roma e risalire Largo Carlo Felice è un’impresa. Non si dissero granché, c’era da aspettarselo perché non avevano effettivamente niente da dirsi e poi, il tutto aveva qualcosa d’insensato.
Quando arrivarono a casa, lei lo fece accomodare sul divano e gli offrì un Negroni, raffazzonato con quello che c’era a disposizione. Poi si sedette accanto a lui, cercando un contatto fisico evidente e Luca, ancora allibito, non si tirò indietro. Sara sapeva cosa stava facendo, ma si meravigliava di se stessa e continuava a pensare che quanto stava accadendo aveva il gusto dell’assurdo, con una punta di squallore, se non fosse che si trattava di due maggiorenni, due giovani che si piacevano, nonostante le differenze, attratti l’uno all’altra da un sapore primitivo, senza sovrastrutture.
Sara pensò che fosse arrivato il momento di abbandonarsi, di lasciarsi alle spalle quel suo fare integerrimo, quella moralità al limite del bigottismo. Ripose il bicchiere sul tavolino che stava di fronte a loro e allungò la mano verso quei ricci che avrebbe sempre voluto toccare, e gli carezzò la guancia. Per Luca fu un nitido segnale e allora la strinse a sé e la baciò, con prudenza e dolcezza dapprima, poi ci presero gusto, perché lei dimostrò la sua convinzione, e allora le mani di lui scivolarono in basso, appena sotto il petto, carezzandogli il fianco e sfiorando con il pollice il seno sinistro, per poi indugiare sulla coscia, in prossimità dell’inguine. Non osò di più, la situazione appariva già sordida e sconvolgente. Sara comprese che toccava a lei, ancora una volta, e pensò che “insomma, non siamo mica dei ragazzini”, che era ora di finirla con quelle smancerie, così lo tirò su per un braccio, senza alcuna resistenza, e si fece seguire in camera da letto, richiudendo la porta dietro di sé.
La chiuse risolutamente, lasciando fuori, non soltanto la nostra morbosa curiosità, che ci costringerebbe persino a cambiare genere letterario, ma soprattutto la sua malattia, perché Sara quel giorno aveva bisogno di sentirsi soltanto una donna, una bella donna, attraente, senza prima, né dopo, un presente pulsante di vita per quel senso ancestrale e bestiale che da quella mattina le faceva ribollire il sangue nei polsi. La vita le pareva sfuggirle e lei se l’era ripresa, con la foga della sua età, con l’impeto irrazionale di chi non ha niente da perdere.
Quando lui si sedette a lato del letto, sfilandosi il profilattico, Sara si girò dall’altra parte, si alzò, indossando soltanto la vestaglia che aveva lasciato sulla poltrona, in un angolo della stanza, e ne uscì frettolosamente, diretta verso la cucina. Mise su una moka di caffè, l’ennesimo si presume, e cercò nei cassetti un pacchetto di sigarette semi nascosto tra le altre cose, come fanno tutti i fumatori che fingono di smettere, lasciandosi sempre qualche sigaretta di salvataggio.
Luca uscì in mutande chiedendo: «Posso usare il bagno? Se non disturbo farei una doccia». Lei soffiò via un po’ di fumo e oscillò la mano come segno di via libera. In quei minuti, mentre lo scrosciare dell’acqua si mischiava al ribollire del caffè, che ormai era salito, Sara si sentì invincibile, probabilmente per quel sapore adrenalinico e di chissà quante altre sostanze ormonali e non, che si sprigionano con il sesso, quando ancora il letto è caldo. Nessuno dei due pranzò quel giorno.
Luca si rivestì in fretta e mentre si allacciava le scarpe disse: «Però … fate tanto le intellettuali … hai capito …». Sara inorridì, comprese che era appena andata a letto con un idiota, pieno di pregiudizi e luoghi comuni, probabilmente persino un po’ sessista. «Cioè?» commentò allora lei. «No, è che uno s’immagina che tu sia una specie di topo di biblioteca, invece …». Lei riuscì soltanto a dire poche parole, ma con fermezza: «Per raccontare la vita, bisogna viverla». «Ah beh», continuò lui, ma Sara sapeva che Luca non aveva minimamente compreso il concetto, non aveva avuto nemmeno la percezione di quanta disperata vitalità c’era in quello che era avvenuto poco prima. Ma del resto, non era importante che lui facesse grandi dissertazioni quel giorno, e la lingua a lui serviva per ben altri e più divertenti scopi. Perciò, pensò Sara, era arrivato il momento di togliersi di torno. Luca l’accontentò, senza volerlo, disse soltanto che doveva andare via, che si era fatto tardi. Lei immaginò il suo nome aggiunto a chissà quale stupida lista di conquiste, e la cosa la lasciava del tutto indifferente. Decise che non avrebbe più messo piede in quel Caffè, perché Cagliari sa essere infinitamente piccola quando vuoi vedere, o cercare qualcuno, ma infinitamente grande, quando vuoi sfuggirli. Del resto, era soltanto un perfetto sconosciuto.
Poi anche Sara si fece una doccia, si rivestì, mise a lavare in lavatrice le lenzuola e gli asciugamani, buttò via i rifiuti, con certosina minuzia, come fa un assassino dopo l’omicidio. E forse qualcuno, almeno in parte, o qualcosa, era davvero morto quel giorno.
Entrò di nuovo nel suo studio, mise la relazione medica in una cartella, abbandonandola in fondo a un cassetto. Poi l’angoscia ritornò, una vibrazione di solitudine e svuotamento e allora, alzò la serranda e si fece inondare da quel sole primaverile, forte come sa esserlo solo a Cagliari, perché sentiva freddo, aveva tanto freddo. S.C.
PS: Ci voleva qualche giorno di ferie per riuscire a scrivere questo racconto!
Un omaggio a Cagliari, più che un racconto
Non appena ho letto questo breve ma intenso racconto, sono stato colpito da una sensazione ambivalente: da un lato di bellezza, dall’altro di profonda inquietudine.
Sara, la protagonista, è una ragazza ipersensibile, intellettuale, profonda che viene raggiunta da una diagnosi negativa e decide di tuffarsi in una stupida avventura con un “perfetto sconosciuto”.
A prima vista sembrerebbero importanti sia Luca, il superficiale ragazzo del bar o Cagliari, la città assolata già ad Aprile. Invece il perfetto sconosciuto alla fine è lo stesso animo della protagonista che nel desiderio di tuffarsi nella vita, nel calore umano di una città e del rapporto con un ragazzo, si ritrova alla fine ancora più sola.
Freddo: questo è il termine chiave che usa la scrittrice. Ad Aprile a Cagliari fa caldo eppure lei sente freddo, il contatto fisico con un uomo dovrebbe scaldare eppure ci si sente ancora più isolati.
Il finale è un pugno nello stomaco similare ad alcune opere della scrittrice Neozelandese K. Mansfield, celebrata autrice di short stories, mi viene in mente anche il bellissimo racconto “La morte Bianca” di Rilke. Quel profumo di sensibilità eccessiva che spaventa, ma dove si raggiungono le vette della maggiore bellezza.
Il racconto ha più livelli di lettura.
Ad una prima lettura risalta l’inquietudine di Sara che si getta letteralmente nelle braccia di un “perfetto sconosciuto”.
Alla seconda lettura Sara non è più la protagonista, è un mezzo per parlare d’altro: c’è sottilmente un rimando a “Sostiene Pereira”, dove Pereira è appunto il mezzo per raccontare della dittatura in portogallo. Sara racconta ci riporta a cose molto più complesse che non la sua personalità.
Alla terza lettura, è la stessa Sara a rappresentare l’elemento sconosciuto, sconosciuto anche a se stessa. Cagliari è la cornice necessaria a sottolineare la dicotomia caldo-freddo che pervade il racconto.
La poesia breve, il racconto breve, il romanzo breve, sono generi che preferisco e che mi sono più congeniali. Continuo a leggere mattoni di improponibile nulla, c’è molto gusto autorale a riempire le pagine, ma difficilmente sono utili al lettore, lasciano qualcosa al lettore. Dire per il gusto di dire, apprezzo più l’enfasi di un istante, sia verso, frase, pagina. Scrivere di più non significa scrivere meglio, anzi, più il testo è lungo e più la possibilità di scrivere cazzate è più alta. C’è in letteratura, un rischio troppo alto di parlarsi addosso.
Leggerò quanto citi.
meraviglioso Stefania..