Suggestioni per la riflessione (5)

Note personali: nulla potrà cambiare nel senso di una medicina incentrata sul paziente, se non si porrà fine o perlomeno un argine ai numerosi conflitti d’interesse che ne sono la stessa propria decadenza, nulla potrà porsi in maniera critica verso l’approccio tradizionale se i futuri medici continueranno ad essere formati da cariatidi baronali con il loro approccio gerarchico di vassallaggio universitario dove vassalli, valvassori, valvassini e servi della gleba prostrati al volere del feudatario da cui dipendono le loro carriere, non potranno conoscere altra medicina che quella del loro predecessore e metterne in pratica i superati atteggiamenti verso il paziente. Paradossalmente proprio il mondo della ricerca, che dovrebbe essere quello più aperto e più all’avanguardia, è colpito a morte da questo servaggio: alzando gli occhi dal microscopio, difficilmente si accorgeranno di avere a che fare con delle persone e non con i dati e le statistiche della prossima pubblicazione. S.C.

Gli effetti di questa concezione della malattia sono sotto gli occhi di tutti: da un lato essa, in quanto fenomeno osservabile e misurabile, è stata studiata nei minimi dettagli, fino ad arrivare a individuare, in alcuni casi, le sue cause genetiche, con tutto quello che ne deriva sul piano diagnostico e terapeutico; dall’altro, proprio perché la malattia è sempre biologicamente la stessa, si sono prodotti i processi di spersonalizzazione del malato e di anonimizzazione della relazione terapeutica di cui molti di noi, direttamente o indirettamente, hanno fatto la triste esperienza. Nel modello bio-medico, infatti, la finalità dell’operatore è conoscere e trattare la malattia e non il malato: perciò, questo modello di medicina viene definito “centrato sulla malattia”, intesa in senso biologico (disease). In una medicina in cui l’interesse principale è quello per il disease, l’incontro tra l’operatore e il paziente si trasforma radicalmente. La dinamica relazionale, per esempio tra medico e malato, è caratterizzata da due aspetti fondamentali, tra loro interconnessi: il potere molto elevato del medico, in relazione al suo sapere e alla sua assoluta expertise sulla malattia intesa in senso biologico, e lo stile che caratterizza le interazioni con il paziente, che è, come è facile capire, molto direttivo, dove “il controllo sull’evoluzione degli scambi è interamente gestito dal medico, che inserisce le risposte del paziente sulla base del proprio schema di ipotesi” (Moja, Vegni, 2000, p. 25). Perciò questo modello di medicina viene anche definito doctor-centered.

Il primo a mettere in discussione questo approccio biomedico è stato sicuramente Balint (1957), che ha proposto un modello di person-centered medicine. All’interno di questo modello, è considerato molto importante tornare a un approccio globale al paziente (tanto è vero che si parla della necessità di una overall diagnosis), anche se non viene posta particolare enfasi sulla sua dimensione contestuale (genere, cultura di appartenenza del paziente, classe sociale ecc.). Il focus d’attenzione deve essere il setting terapeutico, cosa viene detto al suo interno e come. Inoltre, la relazione con il paziente è considerata cruciale, perché è di per sé terapeutica. Essa deve essere quanto più possibile una relazione nella quale si sviluppa un’intimità col paziente, a partire dall’espressione delle sue emozioni, nonché di quelle dell’operatore (che entra quindi con tutto se stesso nella relazione terapeutica), e dal coinvolgimento reciproco. Per questo motivo è molto importante che l’operatore lavori sulle sue reazioni alla relazione terapeutica, attraverso la discussione e la supervisione in gruppo di casi clinici ripresi dalla propria pratica professionale (tutto ciò avviene nei cosiddetti “gruppi Balint”). Se, da un lato, questo lavoro introspettivo dell’operatore permette una maggiore comprensione della pratica clinica e un miglioramento del vissuto professionale, cosa che inevitabilmente si ripercuote sulla qualità della relazione terapeutica, dall’altro, Balint non ha mai spiegato concretamente come mettere in atto una medicina person-centered: il problema maggiore del suo lavoro è che non ha mai dato indicazioni pratiche su come condurre la consultazione in questa prospettiva.

L’importanza del contesto del paziente è stata maggiormente messa in luce da un medico americano, George Engel, che nel 1977 pubblica sulla prestigiosa rivista Science uno storico articolo, nel quale sostiene la necessità del passaggio a un modello biopsicosociale di medicina. Per Engel l’individuo è infatti un sistema che è a sua volta parte di un macrosistema (costituito da famiglia, società, cultura, ambiente ecc.) le cui componenti sono in costante interazione tra loro. “Nel momento in cui interviene una malattia, si assiste a una modificazione non solo della struttura organica dell’individuo, ma di tutte le ‘parti’ che sono in interazione con il sistema uomo: il malato non è colpito soltanto a livello biologico, ma la malattia si manifesta anche come alterazione, anche a livello psicologico o individuale e a livello sociale, del contesto in cui il malato vive” (Moja, Vegni 2000 pag. 41). Engel sostiene che gli operatori sanitari sono invece talmente abituati a pensare al malato e alla malattia unicamente in senso biologico – ossia a partire dal modello biomedico – che non solo non riescono ad allargare il loro sguardo su altri importanti fattori, ma addirittura ritengono che questo approccio sia l’unico possibile nella pratica medica.

I contributi di Balint e di Engel risulteranno fondamentali per la definizione di un nuovo modello di medicina che nasce negli anni Ottanta, la patient-centered medicine, la quale, “come il nome stesso sottolinea, integra la dimensione biologica della medicina tradizionale con una prospettiva in cui il malato è protagonista” (ibidem, p. 42). La nascita di questo nuovo approccio al malato può essere fatta coincidere con la pubblicazione di alcuni lavori sulla rivista Family Practice nel 1986 (vedi, per esempio, Levenstein et al., 1986). Si tratta di un modello che nasce e si sviluppa soprattutto nell’ambito della medicina generale e di famiglia, un campo d’intervento nel quale, proprio per il ruolo centrale della relazione col paziente e il modesto uso delle tecnologie, era probabilmente più sentita l’esigenza di un cambiamento. Ci preme qui sottolineare che la medicina patient-centered, pur incontrando le critiche che molti pazienti cominciavano a fare alla medicina tradizionale, è un movimento che si sviluppa internamente alla medicina stessa, soprattutto per opera dei medici di famiglia.

[Continua]

Ibidem, pp. 39-41.

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