Se il mondo della Cultura discrimina

BARRIERE
Avrei preferito accontentarmi dello scontato assunto che la discriminazione è compagna dell’ignoranza e del pregiudizio, ma questa è una verità che chiude un fenomeno aperto ed esteso.
A partire da una società in cui le disuguaglianze si acuiscono, ferendo le comunità umane, si è pervasi da una mentalità abilista, dove Salute e Benessere si mettono al servizio della performance e dunque il Corpo non è accettabile se non è performativo, e così in questa egemonia escludente anche “il mondo della Cultura” è perfettamente in linea: la disabilità, ammesso e non concesso che riguardi davvero una minoranza tra le minoranze, sparisce da ogni radar, azzerando l’esistenza di istanze specifiche non confliggenti con quella che “l’evoluto Occidente” chiama Civiltà.       
Per farla breve, userò un termine forte, ma efficace, definendo una “silenziosa apartheid” la segregazione di fatto che l’ancora troppo diffusa presenza di barriere architettoniche infligge, proprio laddove la cultura si fa, si fruisce, si condivide. Sono servite le direttive europee per costringere l’Italia ad adeguarsi con obblighi normativi, laddove un radicato senso comune aveva rinchiuso i disabili tra le mura domestiche, martiri oggetto di preghiera. Nonostante i moniti di Bruxelles, il problema non è per niente risolto, ma siamo riusciti perlomeno a far uscire le persone disabili dalle case.
Gli eventi culturali sono spesso inaccessibili per chi ha capacità motorie e sensoriali ridotte, e quando l’accesso è possibile, i posti riservati alla categoria (perché continuiamo a costruire ghettizzando) sono talmente risicati da escludere i più, e i biglietti sono gestiti da Associazioni senza un minimo di chiarezza e trasparenza.

SPAZI MANCANTI
Un caso emblematico è quello dell’Arena di Verona, balzato nuovamente alle cronache nei giorni scorsi. Grazie alla battaglia legale della giornalista e attivista Valentina Tomirotti, che ha fatto causa all’Arena di Verona, alla Fondazione Arena e alla Vivo Concerti, sono state costruite due pedane rialzate destinate alle persone disabili, pur non rispettando pienamente quanto sancito in sentenza. Infatti, le pedane sono attualmente ad uso esclusivo delle persone con disabilità, ma non dei loro accompagnatori, isolando la categoria.
Non è necessaria una grande sensibilità sul tema per comprendere che una persona con disabilità ha bisogno sempre del suo accompagnatore, ma se a questo non ci si arriva, beh, è esperienza di tutti il piacere di condividere con amici e familiari gli eventi culturali, siano concerti o altre manifestazioni. Sono evidenti invece, l’umiliazione e la segregazione, la toppa peggio del buco si direbbe.
Sempre la giornalista ha segnalato come al Salone del libro di Torino, parliamo del 2024, che 3/4 delle esposizioni di grandi colossi editoriali, hanno progettato e pagato stand inaccessibili, con scale e dislivelli senza rampe, e il che significa, spiega la Tomirotti, “che tu non mi consideri come un tuo cliente, non consideri la mia esistenza”.   
Io che nel mio piccolo, seduta su una carrozzina, gli eventi culturali li organizzo, li presento e li gestisco, ho come primo pensiero l’accessibilità di quelle che oggi chiamiamo location. Non solo, ma l’organizzazione degli spazi ha tanto da dirci: se dotare una sala della rampa per la platea, piuttosto che del bagno adattato e di posti adibiti per persone disabili, è abbastanza diffuso che il palco, la pedana rialzata qualsivoglia, è nella stragrande maggioranza dei casi non accessibile: ci stanno comunicando così che lassù non ci arriveremo mai! Possiamo essere fruitori di cultura, nella mentalità generale, ma non produttori, ovvero siamo oggetto di un sistema culturale, ma mai soggetti di costruzione di nuove prospettive. 

SPAZI DA CONQUISTARE
La realtà è come sempre più articolata della sua percezione: ci sono tante persone con disabilità che partecipano attivamente alla società civile, che scrivono, fanno ricerca, lavorano nei più disparati campi del sapere e non solo. Ora che il termine inclusività è entrato nel linguaggio e con forza si fa strada nel nostro modo di pensare, stride ancora di più dover constatare i limiti effettivi: circa l’80% degli iscritti alle categorie protette non lavora, e se lavora è assunto nel settore pubblico e non sorprende vedere disabili relegati in occupazioni marginali e senza nessuna possibilità di carriera giacché anche far uso dei permessi della Legge 104/92 è considerato ostacolo, in poche parole la disabilità è trattata sempre come un problema a cui si è costretti a porre rimedio e non una delle tante specificità con cui il corpo sociale si deve confrontare.
Il fallimento dell’azione lobbistica delle associazioni è evidente. Cosa quindi sarebbe necessario fare per rompere questa segregazione? Gramscianamente si dovrebbe iniziare a parlare in termini di conquista delle casematte del potere, scardinare il modello attualmente egemonico di cui ho già scritto ed affiancarsi ad altri movimenti emancipatori e lotte di affrancamento già in fieri. Significa occupare gli spazi dove si decide, si organizza, si produce: dal Consiglio comunale della propria città al Parlamento, dai Sindacati ai Consigli di Amministrazione, dalle redazioni dei giornali al campo editoriale e così via dicendo, è storicamente vero che, come ancora accade per il Movimento Femminista o LGBTQIA+, il lungo percorso di liberazione dovrà necessariamente partire dagli stessi soggetti discriminati. Ancora una volta è questione di civiltà su cui è opportuno un fine lavoro culturale.
Ci si aspetta tempi lunghi, mentre continuiamo a registrare le mancanze di cui sopra, ma non c’è altra via percorribile che la coscienza dei propri bisogni e del proprio valore e dunque l’autodeterminazione.           

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