Sardegna, quello che resta
Quando sbarco a Livorno, posso sentire nelle orecchie l’eco dei grilli, all’ombra della pineta, il profumo dei ginepri riempire le mie narici, e negli occhi ho ancora immagini di ieri, colori, tramonti che infiammano cieli e nuvole con tinte irripetibili, porpora che invade l’azzurro terso che ci sovrasta, bouganville accompagnarci lungo aride distese deserte d’uomini, il verde opaco della macchia mediterranea, lentisco e rovi, lecci e ginestre, aggrappate al granito sugli strapiombi, una resistenza commovente contro l’asprezza di quei luoghi, che il pastore ha imparato a conoscere, a conviverci con diffidenza, posso vedere la sabbia bianca, tra resti di conchiglie, le rive turchesi, il rincorrersi dei passeri, ali di gabbiano inseguire navi verso il porto, rigagnoli strozzati d’acqua stagnante rimpiangere memorie di fiumi.
Non è nostalgia, non c’è tristezza nel ricordo, è un marchio a fuoco, un coltello che ti fa sanguinare abbastanza da lasciare il segno perché per sempre resti.
Sono questo allora? Questa radice stretta sul rovinoso precipizio come il pugno disperato di chi non può accettare alcuna legge di gravità? Sono forse questa scogliera che guarda l’orizzonte, consumandosi di marea in marea? Sono il belato tormentato di sangue e sudore, lo scampanare nella polvere come per cantare sopravvivenze millenarie? S.C.