Percorsi
Mi scuserete per i miei lunghi silenzi, cari lettori, ma avrò modo, più avanti, di motivare le mie assenze letterarie. Intanto, raccolgo dal moleskine appunti, ritagli d’inchiostro nello svolgersi febbrile degli eventi, e le cose mi appaiono come sempre più nitide a rileggerle, il dipanarsi dei giorni è un dischiudersi primaverile di rinascite, laddove eterno pareva il sonno delle cose.
«Me la cavo! La malattia fa il suo corso e io faccio il mio», ho risposto una volta all’amico che si accertava del mio stato di salute. Una frase, la mia, lasciata cadere senza troppa attenzione, un modo come un altro per divincolarmi da verità più complicate e dolorose.
Eppure, credo di aver detto tutto di me in quelle poche e semplici parole, nella sincerità dell’improvvisato, casuale, mio profondo piglio di sfida verso la vita.
La malattia fa il suo corso, inesorabile, terribile, impietoso. E io faccio il mio, per questa esistenza che mi è data, così percossa dalla bellezza del mondo. Sembrerebbero due rette parallele che non si incontrano mai, invece si intersecano, si scontrano, e per quel punto in cui combaciano è ancora ragione di prostrazione, impotenza.
Ma le due linee continuano il loro percorso.
«Chi ha una patologia come la mia tende a raccontarsi nel suo rapporto con la malattia, descrivendosi come farebbe in ambulatorio: esordio, diagnosi, terapie. Nel percepirsi come malato si definisce nella contrapposizione paziente vs terapeuta» sostengo nell’introdurre la mia tesi sulla necessità del ruolo attivo del paziente nella dinamica curativa attraverso un percorso di autocoscienza.
Il dott. M* mi interrompe, aggrotta le sopracciglia e deciso mi dice: «Malato è un brutto termine, Lei non è malata, lei è una persona con una malattia, non esistono malati, ma persone con una o più malattie, non possiamo identificare una persona con un aggettivo, sì, non è un sostantivo, non possiamo sostantivare una qualità del soggetto». È una giornata di sole, la luce illumina lo studio del dott. M* e il mio sorriso, così incalzo: «Esatto, questo è assolutamente vero, il problema principale in tutto questo è proprio la spersonalizzazione, se la persona sparisce, rimane solo la malattia, la mia è una battaglia che comincia dal mio vicino di flebo».
«Lei ha una capacità critica di elaborazione intellettuale non comune, non tutti hanno questa fortuna, categorizzarsi ha lo scopo precipuo di trovare un posto per sé, di sentirsi parte di una comunità» aggiunge saggiamente M* dietro i baffi, mentre i suoi occhi azzurri si spalancano alla mia fragilità.
Così diversa, mi si dipinge ancora. Io sono come gli altri, e piango e mi dispero quando un sintomo si aggiunge e non regredisce, quando il corpo mi tradisce, e mi arrabbio quando mi sento umiliata e delusa dall’altrui miseria, io sono come gli altri e anche io mi addormento senza speranza e metto insieme i pezzi ogni mattina per alzarmi.
Ci impicchiamo ai progetti perché l’oggi non è abbastanza, e se hai troppi obiettivi finirai per non raggiungerli mai, ma è nel percorso la chiave, perché forse quello che conta è semplicemente andare. Andare sempre. S.C.
Cara Stefania,
e’ sempre piacevole leggere i tuoi pensieri che parlano! Siano essi allegri e spensierati o riflessivi e da studiosa o concentrati e preoccupati o da poeta che rincorre le sue emozioni! Tu sei donna profonda e sai che quei due binari paralleli non potranno mai incontrarsi, anche se tu riesci quasi a veder il loro intersecarsi illusorio. Un abbraccio, donna speciale!