Malinconici adagi urbani
Riesco ancora a sorridere di questo provincialismo trasversale che ti vive sempre come elemento estraneo e incentra l’esistenza nel suo “piccolo mondo antico”. Del resto Fogazzaro lo conosceva bene il luogo che gli diede i natali e dunque non stupisce che il vicentino non riesca a “spiccare il volo”, nonostante una ricchezza di risorse umane ed economiche che ribolle, che parla molte lingue e racconta di enormi distanze e colori, profumi, evocazioni diverse, eppure unite da una costante esistenziale fragile di disarmante caducità.
No, il mondo non finisce passato il Po, così come non finisce in riva al mare, mi verrebbe da dire, e un moto d’orgoglio a volte mi lascia trasalire e sbottare in un “Io vengo dall’Atene sarda, dalla città di un nobel per la letteratura come Grazia Deledda, io ho studiato a Cagliari, nel quarto più grande ateneo della Nazione, io vengo dalla terra di Gramsci, l’italiano più tradotto dopo Dante!”. Poi ti calmi e pensi che non dovresti farti prendere dall’onda emotiva, che ci sta in fondo, che le persone hanno bisogno delle loro sicurezze e tu continui a essere sempre, felicemente e insieme dolorosamente, un outsider. Lo ero quando Nùoro mi stava stretta, quando Cagliari mi stava stretta, e probabilmente è per questa inquietudine che mi agita che non mi basta un pianeta, né una vita.
Nell’infinita piccolezza dell’umanità, ci si sente così soli, indicando orizzonti che difficilmente chi ti circonda riesce a scorgere. Così la vita diventa un ricerca continua di occhi che sappiano vedere e forse questo è un atto di presunzione, da parte mia, ma è per questa ambizione che gli uomini hanno fatto molto di più di quello che i loro limiti imponevano.
E certo, avrei voluto raccontare della mia Cagliari, del Maestrale che ti scompiglia i capelli sotto i portici di via Roma, mentre i gabbiani, dal porto, risalgono Marina e i vicoli di Castello, e da viale Buon Cammino commuoverti ancora per tramonti sul mare e navi che arrivano e ripartono. Avrei voluto raccontare del lungomare e dei chioschi che illuminano la sua vita notturna, all’ombra della Sella del Diavolo, di voli a pelo d’acqua, dagli stagni, di fenicotteri rosa che cercano l’Africa, e di un caffè al Bastione, mentre una studentessa rilegge gli appunti dell’ultima lezione. Avrei voluto raccontare di un gelato in Piazza Yenne, di una lunga coda di auto all’ora di punta in viale Marconi, dell’ennesimo passaggio sull’asse mediano fino a Monte Urpinu.
Invece, racconterò di questa pianura, di questa città di nobile architettura, di schizzi stranieri sui quaderni, mentre la luce primaverile illumina il bianco candore della pietra di Vicenza. Racconterò di passeggiate lungo Corso Palladio e di un caffè in Piazza dei Signori o una cioccolata in Corso Fogazzaro, di versi lasciati scorrere su una panchina di Parco Querini, della poesia di argini e sponde di fiume, scorci da pennello, biciclette che attraversano Campo Marzo verso la stazione. Racconterò di nebbie che avvolgono campi e capannoni, di cementificazioni e violenze di asfalto nel cuore dei campi, della prepotenza dell’industrialismo che distrugge e dà vita al tempo stesso, che ha tolto la fame e che ha lasciato la disperazione appesa a un cappio, nel silenzio del fallimento. Racconterò di questa neve che oggi imbianca la città, del suo verde scintillante, quando arriva la bella stagione, del suo acceso autunno, di estati sempre meno vuote.
Chissà quanto ancora racconterò. S.C.