Lettere dal Nord-Est
Dopo un anno, inizio ad avere meno difficoltà con la lingua: tu mi ricorderai che parlano italiano anche loro, e invece devo contraddirti perché per lo più da queste parti si parla in dialetto e anche quando ci si esprime in italiano le cadenze, gli accenti, rendono la parlata assai diversa e all’inizio c’è voluto un po’ perché ci facessi l’orecchio. Ci sono degli aspetti linguistici che si ripetono, come usare delle particelle per chiudere le frasi, che non hanno un vero significato, se non appunto un ripetersi rituale: all’inizio mi chiedevo perché avessero sempre bisogno della mia approvazione, dopo l’enunciazione di un pensiero, chiudendolo con “è vero?”; in realtà non ci si aspetta una risposta, è un modo di dire, un po’ come per rafforzare la forma di cortesia senti il “grazie sai”, “grazie sa” se ti danno del lei, “arrivederci sai”, per il quale mi ponevo il problema di cosa esattamente dovessi mai sapere. Sono tutti intercalari che ti abitui ad ascoltare e a volte rischi di assumerli anche nella tua parlata. Impari anche un po’ di dialetto, quei “Te g’ho dito” (ti ho detto), “Te g’ha chapà” (ti ha preso), “Ghe s’è” (c’è), venière (venire), metière (mettere), savère (sapere), schei (soldi), morosa (fidanzata), toso (ragazzo) ecc. I veneti ci tengono parecchio alla cortesia e cordialità, non è accettato un atteggiamento scorbutico, le forme di cortesia sono innumerevoli, rispetto a quanto accade in Sardegna, ed è facile abituarsi a questo, perché la verità è che ti fa un gran piacere e così anche tu ti comporti con la stessa attenzione: saluti, sorrisi, grazie e prego che abbondano, insomma, non mi dispiace per niente.
A differenza di noi sardi, che per educazione non parliamo mai “in limba” in presenza di una persona che non la conosce, i veneti non hanno alcuna intenzione di rinunciare al loro dialetto e c’è un grande movimento di popolo che vorrebbe il Veneto come lingua riconosciuta al pari del catalano in Spagna, oltre ai folli tentativi secessionisti che si manifestano in orrendi messaggi lungo l’autostrada del tipo “Veneto Stato”. Eppure è alto in questa regione il tributo di sangue contro la dominazione austrica per l’annessione al Regno d’Italia, o nelle trincee, sui monti e sugli altipiani, forte la passione civile dei figli della Resistenza. L’indipendentismo da queste parti ha un sapore contadino, ed è di questi giorni il patetico incontro del “Parlamento Padano” proprio a Vicenza.
In altre parole, il messaggio è chiaro, lo straniero sei tu e tu ti devi adattare. Certo, puoi comprendere che una mentalità del genere fatica a rendersi partecipe di un profondo meccanismo d’integrazione e se il numero di immigrati dalle più lontane origini è altissimo, il terrore di perdere le radici degli indigeni è così palese, che non resta che una reazione di chiusura.
Comunque esiste anche chi per la dignità dell’uomo, da qualunque luogo provenga, si batte, lo vedo soprattutto a lavoro, ora che temporaneamente sto all’ufficio di Direzione dei Servizi Sociali e Abitatitivi del Comune di Vicenza: non sai quante volte in ufficio capita di sentire del tizio che lotta per avere la cittadinanza dopo tanti anni di lavoro in Italia e ha difficoltà a ricongiungersi con il proprio figlio perché non viene fatto entrare nel nostro Paese, e così mentre si tessono le lodi del valore della famiglia, a queste persone il diritto al proprio nucleo viene negato. O ancora, non hai idea di quanti vivono senza fissa dimora e alloggiano all’albergo cittadino, quanti pacchi della raccolta alimentare consegneremo dopo le feste alle famiglie indigenti, quante situazioni al limite dell’inciviltà, nella piena ingiustizia sociale, si affrontano anche in un piccolo Comune come il nostro. Posso solo immaginare che cosa si possa trovare in realtà come Padova o Verona, per non dire Milano. Ci sono anche dei momenti di grande entusiasmo, la possibilità di conoscere persone meravigliose e di avere degli scambi culturali di grande spessore e ricchezza. In primis, le mie colleghe assistenti sociali hanno molto da insegnarmi e assorbo come una spugna, per quel mio modo di approcciarmi al prossimo con grande interesse, cercando sempre quella nuova pagina in cui raccontare un pezzo del puzzle della mia vita. Leggo dei vari progetti d’integrazione su cui dovrò lavorare e ti dico che è una gioia leggere di quella Vicenza che ti accoglie e ti riconosce appartenente, anche se vieni da lontano.
La mia collega mi ha insegnato, ad esempio, quest’assunto: “non c’è etica, senza estetica”, nel senso che quando s’intende definire dei luoghi di accoglienza o ritrovo, questi devono essere prima di tutto belli, perché quando vuoi che quelle persone amino un luogo, ci vogliano tornare, si sentano a loro agio, devono sostare in uno spazio adeguato e bello, gradevole. Questo mi ha fatto pensare, mi sono ricordata delle volte che ho posto il problema che stare ammassati in una sala per fare le terapie come vacche al macello, è fondamentalmente disumanizzante. Per quanto io sia sempre stata disponibile a costruire insieme ai dirigenti del Centro qualcosa che migliorasse la qualità dell’assistenza anche sotto questo profilo, non ho trovato risposta, al massimo si offendono, credo per lesa maestà, così continuano a fare i tuttologi e cosa è meglio per il paziente lo decide il medico piuttosto che, appunto, il paziente. Il silenzio che ha caratterizzato la scelta di andarmene, mette in evidenza come, nella vita di chi decide cosa è meglio per te, la tua esistenza si chiude insieme alla cartella.
L’altro giorno percorrevo la Riviera Berica, tra Vicenza e Padova, circondata da una fitta nebbia, in un paesaggio autunnale a tratti spettrale. Mi capita spesso di guardare le campagne, le ville venete, le facciate dei palazzi e delle chiese e ricordare quadri d’autore, di sentire quasi l’eco barocco delle opere dei grandi compositori veneti. Non puoi capire fino in fondo una certa produzione artistica senza conoscere questi luoghi, senza aver sentito l’odore del vino di questi colli, senza aver camminato lungo le rive dei fiumi e aver visto maturare il mais nei campi, fiorire i ciliegi.
Ciò che mi manca davvero è poter condividere tutto questo con le persone più care che ho lasciato in Sardegna, e se è dolce questo vagare per gli incantevoli angoli del centro, c’è un’amarezza che vela le cose, e non credo sia il peggioramento della miopia a cui devo porre rimedio.
Non nutro altra nostalgia che per i nostri tè e le lunghe chiacchierate pomeridiane, il tuo cinico e concreto smascheramento delle atrocità con cui ci scontriamo, il tuo rimprovero severo e preoccupato per l’ennesima carica contro i mulini a vento che ho deciso d’intraprendere. Mi manca che qualcuno riesca a vedere oltre questo spessore glaciale, questa finzione che vorrebbe ripararmi dalla mia umanità dispiegata, come fai tu. Insomma, vorrei averti qui.
Un forte abbraccio, Stefania