L’attualità di Gramsci: “Il Lavoro unisce”

Festa del tesseramento

(Rifondazione Comunista Vicenza – Circolo Antonio Gramsci)

Vicenza, 8 maggio 2011

 

[Il mio intervento su Gramsci]

Quando pensiamo alla figura di Antonio Gramsci non dobbiamo solo soffermarci sul suo ruolo all’interno del patrimonio di origine marxista, ma dobbiamo renderci conto che il pensiero gramsciano ha fortemente influenzato non solo la sfera culturale italiana, sono infatti gramsciani i concetti di “egemonia”, “subalterno”, “intellettuale organico”, “intellettuale collettivo” e molte altre categorie filosofico-politiche, oggi utilizzate correntemente nel linguaggio della filosofia e della politica appunto, ma le riflessioni gramsciane attraversano il globo e diventano spunto di dibattito in ogni parte del mondo: è recentissima la pubblicazione di un volume dal titolo “Gramsci in Asia e in Africa”, curato da docenti della facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Cagliari, ed ancora pensiamo a come il pensiero gramsciano sia trattato nelle università statunitensi, come Gramsci sia, dopo Dante, l’intellettuale italiano più tradotto e studiato al mondo.

Senza entrare nel merito della complessità e vastità dei temi trattati dallo stesso Gramsci, per le quali avremo bisogno di molto più tempo ed approfondimenti nel merito più specifici, io voglio, non a caso in Veneto, non a caso a Vicenza, puntualizzare alcuni aspetti che riguardano il mondo del lavoro e il concetto di Unità nazionale. Lo faccio cominciando dalla lettera del filosofo sardo, a proposito della nascita del quotidiano L’Unità, appunto: L’Unità inizia le sue pubblicazioni il 12 febbraio 1924 a Milano: il titolo venne scelto dallo stesso Gramsci, che ne diede anche il sottotitolo “quotidiano degli operai e dei contadini”. Non fu certo una scelta casuale, piuttosto l’unità tanto auspicata faceva riferimento ad uno dei principi gramsciani massimi, cioè quello per cui l’emancipazione delle masse doveva passare necessariamente per l’unione d’intenti tra operai e contadini, tra nord e sud, al fine di risanare quella frattura originaria che divideva il Paese in due principali sezioni, allontanando la prospettiva unitaria di lotta contro l’oppressione capitalista. È lo stesso Komintern a chiedere l’uscita di un quotidiano “per controbilanciare l’influenza dell’Avanti!” sulle masse.

“(…) Io propongo come titolo ‘L’Unità’ puro e semplice, che sarà un significato per gli operai e avrà un significato più generale, perché credo che dopo la decisione dell’esecutivo allargato sul governo operaio e contadino, noi dobbiamo dare importanza specialmente alla questione meridionale, cioè alla questione in cui il problema dei rapporti tra operai e contadini si pone, non solo come un problema di rapporto di classe, ma anche e specialmente come un problema territoriale, cioè come uno degli aspetti della questione nazionale. Personalmente io credo che la parola d’ordine ‘governo operaio e contadino’ debba essere adattata in Italia così: ‘Repubblica federale degli operai e contadini’. Non so se il momento attuale sia favorevole a ciò, credo però che la situazione che il fascismo va creando e la politica corporativa e protezionistica dei confederali porterà il nostro partito a questa parola d’ordine. A questo proposito sto preparando una relazione per voi che discuterete ed esaminerete. Se sarà utile, dopo qualche numero, si potrà nel giornale iniziare una polemica con pseudonimi e vedere quali ripercussioni essa avrà nel paese e negli strati di sinistra dei popolari e dei democratici che rappresentano le tendenze reali della classe contadina e hanno sempre avuto nel loro programma la parola d’ordine dell’autonomia locale e del decentramento. Se voi accettate la proposta del titolo ‘L’Unità’, lascerete il campo libero per la soluzione di questi problemi e il titolo sarà una garanzia contro le degenerazioni autonomistiche e contro i tentativi reazionari di dare interpretazioni tendenziose e poliziesche alle campagne che si potranno fare: io d’altronde credo che il regime del soviet, con il suo accentramento politico dato dal partito comunista e con la sua decentralizzazione amministrativa e la sua colonizzazione delle forze popolari locali, trovi un’ottima preparazione ideologica nella parola d’ordine: Repubblica federale degli operai e contadini. (…)”

Ora, è chiaro che l’idea di una Repubblica federale non ha niente a che fare con quanto paventato dalla Lega, Gramsci piuttosto ritiene sia necessario, al fine di combattere Il Capitale, un’unione di intenti tra forze operaie del nord e contadine del sud: la separazione, lo smembramento, la creazione di conflitti tra la parte settentrionale e meridionale del Paese ha evidentemente una funzione di indebolimento della mobilitazione dei lavoratori, è funzionale all’egemonia capitalista che si nutre delle fratture all’interno del movimento operaio, ieri tra nord e sud, oggi, per via della globalizzazione, tra occidente e gli altri paesi in via di sviluppo.

Quante volte abbiamo sentito il pregiudizio del meridionale “scansa fatica”, del settentrionale che pensa solo al guadagno e si arricchisce sulle spalle dei meridionali. Su questo ho trovato esemplificativo un estratto di un articolo, pubblicato dallo stesso Gramsci:

La Brigata Sassari, si racconta, fu mandata a Torino con il compito ben preciso di rappresentare “i castiga-bolscevichi, i martelli del comunismo”.

“In verità, – spiega Gramsci – ciò che poteva preoccupare in quei giorni era questo: che i sardi confondevano tutta la cittadinanza torinese in una sola classe, ‘i signori’. Un ardito, interrogato: «Perché siete venuti a Torino?», rispose: «Per sparare contro i signori che fanno sciopero». «Ma – gli fu risposto – i signori non fanno sciopero; i signori sono ricchi, non lavorano, vivono del lavoro dei poveri, e sono i poveri come voi che fanno sciopero». «Macché, tutti i ricchi sono qui a Torino, non ci sono poveri come in Sardegna». Questa posizione era preoccupante: i sardi vedevano tutta la cittadinanza torinese come di un’altra classe, di una classe diversa dalla propria; la loro azione poteva sembrar loro una forma di lotta di classe”.

Eppure “in pochi mesi la situazione si è completamente mutata. Oggi i sardi sentono di avere dei fratelli di classe in continente, nel Piemonte, a Torino. Come è successo questo mutamento? Per le indefinite vie per le quali si propaga l’idea socialista. Direttamente, poiché i soldati sardi presenziarono a comizi grandiosi, come quello del Primo Maggio. Indirettamente per la propaganda antibolscevica svolta nelle caserme. I borghesi credono davvero che la divisione delle classi e la solidarietà di classe siano ‘invenzioni’ dei socialisti: ignorano completamente la psicologia dei proletari. Nelle caserme parlano ai sardi di socialismo e di bolscevismo, per combatterli. Fecero conoscere ai sardi idee e avvenimenti che non conoscevano prima. Un episodio: in una conferenza di caserma si inveisce contro gli operai bolscevichi che non si contentavano di un salario di 3 (!) lire all’ora. Un contadino domandava la parola: «Io non so cosa siano i bolscevichi, ma se essere bolscevichi significa guadagnare 3 lire all’ora, noi sardi che guadagniamo poco, dobbiamo essere tutti bolscevichi»”.

Lo stesso Gramsci, in una bellissima lettera alla moglie, spiega come sia la sua esperienza torinese, l’incontro con la classe operaia torinese, a far comprendere quei principi che chiama “le cose di Marx”. Anche Gramsci è stato un migrante, in una lettera alla cognata scrive:

“partii per Torino come se fossi in istato di sonnambulismo. Avevo 55 lire in tasca; avevo speso 45 lire per il viaggio in terza delle 100 avute da casa. C’era l’Esposizione e dovevo pagare 3 lire al giorno solo per la stanza. Mi fu rimborsato il viaggio in seconda, un’ottantina di lire ma non c’era da ballare perché gli esami duravano circa 15 giorni e solo per la stanza dovevo spendere una cinquantina di lire.

Non so come ho fatto a dare gli esami, perché sono svenuto due o tre volte. Riuscii ma cominciarono i guai. Da casa tardarono circa 2 mesi ad inviarmi le carte per la iscrizione all’università e siccome l’iscrizione era sospesa, erano sospese anche le settanta lire mensili della borsa. Mi salvò un bidello che mi trovò una pensione di 70 lire, dove mi fecero credito; io ero così avvilito che volevo farmi rimpatriare dalla questura. Così ricevevo 70 lire e spendevo 70 lire per una pensione molto misera. E passai l’inverno senza soprabito, con un abitino da mezza stagione buono per Cagliari. Verso il marzo 1912 ero ridotto tanto male che non parlai più per qualche mese: nel parlare sbagliavo le parole”.

Che differenza c’è allora tra il Gramsci di allora e i tunisini e i libici che sbarcano oggi a Lampedusa, che differenza c’è tra loro e me, che fuggo da una disoccupazione giovanile che in Sardegna tocca il 54% (Qualsiasi economista vi direbbe che quella percentuale significa che l’economia è ferma, che non c’è sviluppo, non c’è futuro): ebbene c’è ben poca differenza, abbiamo tutti dovuto attraversare il mare. È il lavoro, il valore del lavoro, che unisce, non il retorico patriottismo, questo ce lo ha detto Gramsci, questo è quello che stiamo vivendo.

Ecco perché dobbiamo costruire e riaffermare una forza alternativa e comunista, perché sono i comunisti a svelare le contraddizioni del sistema, perché sono i comunisti a rimettere al centro del dibattito politico il lavoro e su questa bandiera unire i popoli perché la povertà e lo sfruttamento non sono un fatto geografico, non sono un fatto etnico: sono una questione di classe, sono una questione materiale che dobbiamo far emergere nel loro potenziale conflitto.

Stefania Calledda

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