In moto perpetuo
“Io sono il soldato all’arma bianca del vivere” S.C., Attimi d’abisso
L’aspettavo da un po’, sapevo sarebbe arrivata e che mi sarei dovuta fermare.
Da gennaio ad aprile è stata una corsa ininterrotta, senza un attimo per prender fiato: prima la ricerca della casa, poi il trasloco, i fine settimana passati per negozi, la fatica fisica, le notti insonni, e poi, a maggio, la presentazione del libro a Vicenza, l’arrivo della mia migliore amica in Veneto e dunque altre scorrazzate in terra berica.
Quando finisco per trascinarmi, appoggiata a una stampella che a poco serve, accetto serenamente che la mia malattia abbia deciso di ricordarmi che non sono Wonder Woman, va bene così, dico. Lunedì ho la visita, ho pensato, non mi darà nemmeno il tempo di entrare in ambulatorio e mi ricovererà in Day Hospital.
In effetti, quella mattina mi sentii particolarmente prostrata, una rabbia mi agitava percorrendo l’autostrada, è l’unica cosa che mi permette di resistere quando ogni altra forza manca, e allora mi sfogai con Matteo che era alla guida: perché in questa malattia di cui ancora non sanno le cause, non hanno strumenti, arrivano a un punto che non hanno più niente da dirti e si rammaricano per la loro impotenza, hanno pure il coraggio di ostacolare quel poco che può dare solievo a un paziente, e io sono là che aspetto che la ricerca faccia il suo corso, che la burocrazia faccia il suo corso, mentre il mio sistema emodinamico, come se non mi bastasse il resto, ha più interruzioni della Salerno-Reggio Calabria. I miei commenti in proposito sono sempre sprezzanti, come quando chiarii che in ambulatorio la regola è che non si parla di CCSVI, al che mi si chiese: «E allora?». La mia risposta fu: «Vorrà dire che parleremo del tempo».
Quando la neurologa mi vide entrare in ambulatorio, non mi diede quasi il tempo di sedermi, mi disse “Non perdiamo altro tempo, facciamo un po’ di cortisone”. Tra me e lei esiste una cortese distanza, ci diamo del lei, rispettivamente, le nostre conversazioni sono asettiche come il contesto, le nostre vite non s’incontrano. Dalla deformazione delle dita posso intuire che abbia una forma reumatica, il nostro dolore nemmeno si sfiora, ci sono solo fatti, dati oggettivi, persino il “come sta?” par quasi fuori luogo. La mia è una distanza dolorosa, credo che lei lo percepisca e lo rispetti, una voluminosa cartella mi racconta, una risonanza magnetica mi racconta: «Beh, vedo cose che lei credo già sappia, è la risonanza di una persona che ha tanti anni di malattia, non ci sono focolai d’infiammazione, possiamo ritenerla sovrapponibile all’ultima effettuata nel 2010, c’è un’atrofia importante in alcuni punti», mi aveva detto in ottobre.
Leucoencefalomielite, forma secondaria progressiva, si prescrive cortisone ad alte dosi per ricaduta: 5 grammi di solumedrol in soluzione fisiologica e deltacortene a scalare per 30 giorni, si riporta nella relazione medica.
Mi siedo in sala, l’infermiere mi conosce, si è creata una simpatia tra noi, sa che scrivo e lui fa teatro, parliamo spesso delle sue escursioni in bicicletta, è così che ha conosciuto la Sardegna. Con sicurezza trova la vena e infila l’agocannula, la terrò per i 5 giorni di DH. Sono azioni che conosco, c’è quasi una ritualità in quei gesti, tutto si ripete, nulla mi sorprende più, anche se, certo, era almeno un anno che non facevo terapia, quel farmaco mi pesa questa volta, mi stordisce, è come se tutta la stanchezza accumulata in quei mesi, mi piombi addosso. La dottoressa passa più volte, ogni giorno, chiede come stia, ma non ci sono benefici, solo una grande stanchezza. Mi dice che non si aspetta nulla per ora, che il farmaco ha bisogno del suo tempo, l’organismo ha bisogno del suo tempo. Lo so, non mi spaventa. A dir la verità, come ha sottolineato la mia collega qualche giorno fa, non ho paura di nulla.
È forse questa mia compostezza che lascia basiti gli altri, come la ragazza sotto accertamenti che passa per il day service, mentre le poesie di Mark Strand mi tengono compagnia. Mi chiede come faccia a stare così tranquilla, pacata, serena. Le dico poche cose, nei miei anni di volontariato ho avuto a che fare con molti neodiagnosticati, da quello che mi racconta so che ha una sospetta SM, ma non glielo dico, non mi permetterei mai, non spetta a me, mi attengo a spiegarle che tutto quel mondo non mi è nuovo, le porto la mia esperienza, la mia testimonianza di vita. Mi sorride e mi ringrazia, dice che il cielo, in quel momento in cui ne aveva tanto bisogno, le ha mandato me, il suo angelo. Mi saluta, ringraziandomi ancora.
E poi c’è il ragazzo del Ghana che non si è presentato all’appuntamento e che ora cerca la sua dottoressa che è in ferie. L’infermiere è alterato perché gli stranieri non rispettano mai gli appuntamenti. Ascolto le ragioni dell’uno e quelle dell’altro, li metto in comunicazione, risolvo. Capisco che per la forte immigrazione presente sul territorio, ogni ospedale dovrebbe avere dei mediatori culturali, non solo linguistici, ma proprio culturali: è evidente che non comprendono che l’assistenza per noi ha un tempo misurato e, come se non bastasse, il problema linguistico fa sì che si affidino a terzi nella gestione delle comunicazioni, con grandi fraintendimenti. Dico al ragazzo del Ghana che il problema non è che lui non capisce bene l’italiano, ma che il suo “capo”, come lo definisce, a cui ha lasciato in mano la questione, non capisce bene l’italiano.
C’è in me, un naturale e congenito senso di servizio verso il prossimo, un senso laico, empatico, umanistico, e per quanto tenti di scansarlo, questo mi rincorre.
Nel weekend decisi di darmi al totale relax, godendomi la festa del Paese. Mi ripresi la lentezza del vivere, quella sana, rinvigorendomi nel corpo e nello spirito. Il lunedì ripresi a lavorare, ma anche nel raggiungere l’ufficio andai più lenta, guardando le viti rigogliose ai lati della strada, i campi seminati, le ville, i colli farmi ombra. A distanza di una settimana, non ho inteso abbandonare questa leggerezza, e in attesa delle ferie di luglio, il mio totale recupero è diventato occasione per aperitivi costruttivi, incontri per delineare progetti che si compiranno tra l’autunno e l’inverno berico.
Per fermarmi, bisogna abbattermi. S.C.