Il vento che cambia: perché facebook fa paura

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Il nuovo spauracchio ha un nome: facebook. Il potere, in tutte le sue forme, dai mass-media alla politica, ha giurato una guerra all’ultimo sangue contro il fenomeno garantito dalle nuove tecnologie: così la comunicazione diretta dai social-media, l’incontrollabile informazione e diffusione sostenuta da migliaia di blog, testate online, ed altri mezzi del panorama web internazionale, viene sottoposta a continui attacchi e delegittimazioni da parte di coloro che fino a ieri detenevano lo scettro della comunicazione e mediavano le informazioni secondo i loro interessi specifici.

Continuare a sostenere questa battaglia non porterà molto lontano: è in atto una rivoluzione inarrestabile, un processo partecipativo dal basso che coinvolge soprattutto le nuove generazioni e facebook, che si dimostra essere il maggiore strumento mobilitativo a disposizione, come del resto internet in tutti i suoi aspetti, non è che un mezzo come lo fu il vapore per la rivoluzione industriale.

Il vento che cambia è spinto fortemente da questi nuovi fenomeni di mobilitazione, così in nord africa come in Spagna; in Italia si è espresso nella grande partecipazione elettorale giovanile, nella scelta di candidati d’alternativa, insomma di fronte alla crisi, mentre la gerontocrazia italiana sentenziava la fine di un’intera generazione, condannandola in definitiva ad essere ormai perduta, la reazione è stata forte, radicale: si è chiesta una svolta nelle politiche pubbliche in senso ambientalista, di dignità del lavoro, di investimento nella ricerca e nel progresso. Finché i media tradizionali hanno potuto anestetizzare le coscienze, il Paese si è fermato come in una grande bolla: poi internet ha aperto nuovi spiragli e il sapere, l’informazione libera, la possibilità sempre più ampia di confrontarsi ha rotto gli argini e un’alluvione di nuove idee ha travolto lo status quo.

Nel nostro piccolo abbiamo constatato come la CCSVI abbia costituito un momento di riflessione internazionale sui vari aspetti del vivere la cronicità delle malattie: ha aperto il vaso di Pandora e con il passare del tempo sono emersi molteplici problematiche in seno all’idea di salute, scienza, ricerca, medicina.

Utilizziamo una metafora storica per comprendere cosa sia accaduto: pensiamo alla riforma protestante e a quale enorme rivoluzione occidentale la critica luterana abbia introdotto. Due sono i punti cardine del pensiero luterano:

1) Disvelamento dei reali interessi economici legati al mercato delle indulgenze e delle reliquie, nonché dell’accumulo delle cariche ecclesiastiche.

2) Eliminazione della mediazione sacerdotale tra l’uomo e Dio, anche attraverso la traduzione dei testi sacri dal latino al volgare, cioè nella lingua parlata e conosciuta dai popoli, e sua diffusione grazie all’invenzione della stampa e di sempre più alti livelli tecnologici della medesima.

Dunque, cosa è accaduto all’indomani della pubblicazione del prof. Zamboni sulla sua scoperta? Come non si era mai verificato prima, i pazienti più informati hanno utilizzato gli strumenti a loro disposizione di divulgazione scientifica e di mobilitazione, passando attraverso due punti essenziali:

1) Denuncia della propria condizione di malati cronici con riferimento ai conflitti di interesse che dominano l’assistenza e la ricerca, sempre più in mano alle case farmaceutiche che finanziano la gran parte degli studi: chiunque abbia fatto studi economici sulla globalizzazione sa con certezza che le multinazionali del farmaco sono le uniche ad aver continuato a crescere in termini di profitto durante la crisi economica. Non si può non riflettere su questo inquietante aspetto: è come se la ricerca sulle energie rinnovabili fosse finanziata soprattutto dalle compagnie petrolifere.

2) Divulgazione capillare delle pubblicazioni scientifiche e traduzione nella propria lingua d’appartenenza per rendere più comprensibile i testi: con internet viene a cadere la mediazione del medico, così che la comunicazione ambulatoriale viene integrata da ulteriori informazioni recepite attraverso le pubblicazioni originali, grazie alla possibilità di accesso alle riviste scientifiche ed ai siti ufficiali delle stesse case farmaceutiche, con pagine dedicate interamente ai loro prodotti.

Gramsci affermava che per l’operaio studiare è un dovere perché è l’unico mezzo che ha per emanciparsi. Così possiamo dire altrettanto per i pazienti. È un processo nel quale non si può tornare indietro, si può al massimo ragionare in prospettiva, confrontandosi con il fenomeno, piuttosto che subirlo. Fatevene una ragione.

Personalmente la scienza di per sé mi annoia, non ho grande interesse nel documentarmi continuamente su tutte le pubblicazioni in uscita: da umanista è tutta la fenomenologia collegata che trovo entusiasmante, gli aspetti sociali, politici, economici. Le trasformazioni che stiamo vivendo nel campo della comunicazione, anche quella terapeutica, sono da tenere sotto osservazione per starne al passo: per quanto mi sia sempre offerta di aiutare il neurologo a comprendere alcuni meccanismi, fondamentalmente perché questo è il mio campo, la risposta è stata sempre da tuttologi che arrogantemente pensano di poter gestire il cambiamento: il risultato è l’aggressività, lo sbandamento, la paura. La chiusura verso la CCSVI non deriva tanto dalla scoperta di per sé rivoluzionaria; piuttosto dalla grande mobilitazione di massa che ne è derivata e che ha scardinato alcune sicurezze del potere mediatore del medico che si esercita tra il malato e la scienza medica.

Dire perciò che facebook potrebbe favorire il finanziamento alla ricerca di Zamboni è un’eresia: la pressione dei pazienti può al massimo lavorare come un tarlo e tenere desta sempre l’attenzione perché il malato non ha altro interesse che la sua salute e la sua vita e non rinuncerà perché “quache sacerdote della scienza ha gridato alla scomunica”. Il problema anche qui, è che il medico che ha lanciato quella provocazione su Nature non si occupa di politica economica e sarebbe bene che la medicina si occupasse sempre meno di politica e di economia.

S.C.

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