Carteggi (3)
Firenze, 15 dicembre 2012
Cara Stefania,
innanzitutto, complimenti per il tuo ultimo post. Ogni volta riesci a superarti quanto a profondità e sensibilità. La tua straordinaria empatia ti porta a interessarti anche all’altro, il caregiver appunto, quando sarebbe assolutamente fisiologico, e già abbastanza gravoso, occuparsi di te stessa, della quotidiana lotta contro la malattia.
Ritengo però, come ti ho detto già in altre occasioni, che questo sia un tuo punto di forza. Una sorta di polo opposto all’egoismo, quell’individualismo esasperato che è una delle tante conseguenze della malattia, che ognuno di noi sviluppa in una situazione di disagio, a maggior ragione se il nemico è una malattia cronica.
Ecco che, perciò, la tua empatia è un opporsi anche a questa faccia della malattia, un modo per non lasciarle prendere troppo piede, per evitare che si prenda anche questo lato luminoso, bello, potente della tua anima.
Ritornando alla tematica del caregiver: è un aspetto che mi ha sempre interessato molto. Proprio in questi giorni pensavo di proporre, dopo il suggerimento di una psicologa che collabora con l’ambulatorio che frequento, una sorta di “scala” per analizzare il benessere psichico del caregiver.
Aldilà delle fredde analisi statistiche, ho riconosciuto, leggendoti, molte reazioni che ho osservato nei familiari di pazienti affetti da malattie neurodegenerative.
C’è il caregiver ostinato, quello che non si arrende, e continua a chiedere se la ricerca ha fatto qualche progresso, che spera sempre in qualcosa di più. La moglie annientata dallo sguardo vuoto del marito, perso in una dimensione senza tempo, senza spazio, la cui atrocità della diagnosi ha strappato via il bene più prezioso: la bellezza dei ricordi. E poi c’è il caregiver che non saprebbe più immaginarsi altrimenti, che è terrorizzato dall’idea di perdere la persona che ama, per una totale e assoluta identificazione in questo ruolo. Denominatore comune di tutte queste sfaccettature è la sofferenza che caratterizza questo ruolo. Del resto, come sarebbe possibile pensare che il caregiver, la moglie, il compagno, il figlio, persone che darebbero la propria vita pur di cancellare la brutalità di alcune diagnosi, possa restare saldo ed indistruttibile di fronte al doloroso percorso della malattia?
Ma tanto è facile intuirlo, tanto poco fanno le istituzioni per salvaguardare queste persone, con la naturale conseguenza che il dolore raddoppia: da un lato l’impotenza per non poter salvare chi si ama, dall’altro il freddo distacco delle istituzioni che tendono, sempre più, a scaricare sulle famiglie l’onere delle cure.
Arriviamo al terzo caregiver, il medico. Mi sono sentita una morsa allo stomaco, leggendo le tue parole. Sarò medico fra qualche mese ma questa sensazione l’ho provata più e più volte. Ogni volta che un mini mental crolla vertiginosamente, ogni volta che un test genetico arriva, come uno tsunami, a travolgere le speranze, i sogni, i progetti di un giovane che si è appena affacciato alla vita e che ha tutto da costruire. Quando gli occhi incontrano lo sguardo di un uomo che è perso nella dimensione angosciante dell’oblio e al quale nessun trattamento potrà ridare la bellezza della memoria, la sensazione più immediata è una frustrazione senza limiti.
Poi arriva il senso di colpa, perché un medico deve essere al di sopra di tutto, non deve concedersi emozioni, non può buttarsi giù e sentirsi sconfitto. E allora ci si costringe a una punizione disumana. Soffrire in silenzio, non lasciarsi sconvolgere da nulla, ma magari rifugiarsi in paradisi artificiali, quali psicofarmaci, alcool, droghe (non dimentichiamo che fra la classe medica è altissimo l’abuso di queste sostanze).
Non sarebbe tanto più facile per tutti, se la società vigilasse su ciascuna di queste persone, garantendo al paziente le migliori cure possibili, al caregiver un supporto adeguato e al medico la possibilità di essere umano e di curare anche con le proprie lacrime, la propria sofferenza?
Forse sono solo un’utopista ma non voglio smettere di credere e di lottare, nel mio piccolo, affinché ci si avvii verso una simile realtà.
Ti abbraccio e spero di sentirti presto, F***
Vicenza, 16 dicembre 2012
Cara,
scrivi delle riflessioni così profonde e intense che leggerti diventa una scossa, un brivido intellettuale che rievoca molti ricordi e molti discorsi fatti, molte parole dette, molte riflessioni, immancabili momenti come nostalgie.
Mi citi una casistica che, data la mia esperienza, posso confermare appieno. Tutta la sfera delle relazioni che s’intessono all’interno di un reparto o di un centro di cura e diagnosi, sono fonte di molteplici spunti di riflessione sull’esistenza.
Parlare della malattia non ha dunque, per me, lo scopo semplicemente di creare nel lettore una pietas, un moto emotivo, irrazionale, un legame di pathos travolgente, piuttosto è un medium, una sorta di cartina tornasole dell’umanità in tutte le sue manifestazioni. Laddove la condizione estrema amplifica le cose, e non vi è nulla di più estremo che la morte, la perdita, la malattia, è più facile vedere come l’uomo possa esprimersi e dare il meglio o il peggio di sé. Laddove niente è più scontato e le percezioni assumono un tenore di esaltazione tale che non si comprende appieno cosa sia reale e cosa invece immaginifico, è come vivere sulla corda di un funambolo, dove basta un nulla per cadere: impari dunque a rialzarti, ma non sempre questo è possibile. Dall’alto di un filo sospeso, la vita appare immensamente densa di istanti irripetibili e preziosi, una vertigine di sensazioni sorprendenti.
Una volta mi chiesero: “Non senti il bisogno di fare qualcosa di estremo, non so, lanciarti con il paracadute, fare bunging jumping?”. La mia risposta è stata molto lapidaria, come mio solito: “Io vivo già una condizione estrema, io vivo ogni giorno sapendo che domani potrei non camminare più, non sentire più, non vedere più ecc. Avrei in realtà bisogno di vivere qualcosa di più sereno e tranquillo, di meno estremo, ecco”.
Il tutto è molto complesso, ma tra gli utopisti mi ci metto anch’io, perché scrivere di ciò altrimenti? Perché continuare a denunciare, descrivere, spiegare e pubblicare di questa realtà? Non c’è arma più temuta della penna.
A presto, Stefania
Una ventata di morte è una ventata di vita per quelli che, fin quando non morirono, non divennero vivi, per quelli che, se fossero vissuti, sarebbero morti, ma quando morirono cominciarono a vivere. E. Dickinson