Carteggi (2)
Parigi, 24 ottobre 2012
Cara Stefania,
Ti ringrazio per le tue parole, mi sono davvero di conforto.
Vorrei avere più sicurezze, vorrei avere la soluzione a tante sofferenze che incontro, trovare una risposta senza conoscere il rischio. Purtroppo, mi sono scelta la scienza inesatta per eccellenza: la Medicina è così terribilmente contorta, al punto che, ahimè, talvolta, non si può che crescere e imparare attraverso l’errore.
Non si muore mai come sui libri di Medicina, spesso i segni e i sintomi sono vaghi, e fare una diagnosi può essere un lavoro duro ed estenuante. A me fa così male pensare di poter causare ulteriori sofferenze, dolori, di non riuscire a evitare le perdite.
D’altra parte, però, cosa sono questi dubbi davanti alla possibilità che ho di fare bene il mio lavoro e potermi prendere cura dei miei pazienti? Soprattutto, non sono un dettaglio meschino in confronto alle sofferenze che mi troverò davanti, davanti all’esperienza dolorosa della malattia?
Il medico potrà anche avere un fardello gravoso sulle spalle, ma la priorità resta il paziente.
Ecco perché ritengo che la medicina sia una missione, una vocazione, un percorso difficile, pesante, faticoso, in cui si deve essere disposti a sacrificare ore di sonno, tempo a se stessi e ai proprio cari, allo scopo “di prestare la mia opera con diligenza, perizia e prudenza secondo scienza e coscienza”.
Quanto alla mia esperienza personale, so che può sembrare un discorso un po’ fatalista, ma ho imparato a credere nei segni, e in ogni periodo in cui dubitavo di questo mio difficile cammino, l’arte medica mi è venuta a cercare. Attraverso incidenti ai quali ho assistito, esperienze in cui ho potuto dare il mio piccolo, ancora inesperto aiuto. Come faccio a non credere che questo sia il mio destino?
Non c’è nulla che ami quanto continuare a sapere, non c’è nulla che mi rende più felice di aiutare il prossimo. Mi piace pensare che un giorno arriverò a convivere serenamente con queste perplessità, trovando un equilibrio nella consapevolezza di agire con scienza e coscienza, accettando anche l’eventualità dell’errore. Perché è questo che mi rende umana. E, come dici tu, è anche l’essenza della mia sensibilità.
Quanto a te, come ti ho scritto, riesco a percepire la tua fragilità, in tutti i tuoi versi carichi, talvolta, di stanchezza e delusione, negli accenni ai compagni che hai perso, nei momenti in cui anche sperare sembra troppo difficile, ma io credo che in questa fragilità metta radici la tua forza.
Tu non cerchi di scappare dalla tua malattia, di fingere che vada tutto bene, di evitare il momento doloroso della consapevolezza. Tu hai scelto di lottare consapevolmente, non aggrappandoti alla speranza, rifuggendo la realtà, ma seguendo attentamente, con occhio clinico, ogni sfumatura della tua condizione, arrivando a fare della sofferenza un momento di crescita interiore, di opportunità.
E, intanto, ti sei trasferita, hai creato una nuova vita lontana dalla tua terra, sei un’ottima giornalista e una scrittrice apprezzata. Ecco, quello che io chiamo sublimazione della sofferenza.
Ci vuole un estremo coraggio, una grande forza interiore e una straordinaria energia mentale per arrivare a fare questo. Non sarebbe più facile piangersi addosso, lamentandosi dell’ingiustizia della malattia e rinunciare a vivere?
Non so cosa voglia dire convivere con una malattia cronica. Finora l’ho vissuto solo attraverso gli sguardi dei pazienti che venivano in day hospital o in ambulatorio, i loro sorrisi quando c’era un miglioramento, i momenti di sconforto che, inevitabilmente, arrivano. Eppure, ho sempre immaginato che ci si trovi davanti ad una scelta: vedere la malattia come una maledizione bastarda, lasciarle piede libero e far sì che si divori tutta la tua giovinezza, i tuoi progetti, l’amore che ti circonda, la capacità di sorridere ancora, o accettare che sia un fardello, di cui non si smette mai di sentire il peso, nelle ossa, nel cuore, nella mente, ma combattere, minuto dopo minuto, per fare in modo che non sia così vorace da intaccare la voglia di conoscere il mondo, di amare, di sperare.
Per fare questo ci vuole una forza straordinaria, un inguaribile amore per la vita, una sensibilità spiccata.
Ed è questo che fa di te, Stefania, una persona destinata a Vivere.
F****
Vicenza, 24 ottobre 2012
Cara,
proprio lunedì avevo la visita neurologica. È sempre straziante vederli così assolutamente inutili, così assolutamente impotenti. Questo mi fa paura, perché oltre alla completa aridità del dialogo e del rapporto, per quel vuoto di significati che assume il tutto, c’è la concreta certezza dell’incertezza.
Se almeno avessi un cenno di consolazione, invece c’è uno scambio quasi surreale che priva le cose di senso.
Quel vuoto così resta tale, angosciante, a tratti imbarazzante, tanto che vorresti dirle: e allora perché siamo ancora qui a compiere questo rito, con questa indifferenza che si chiude con una stretta di mano e un nuovo appuntamento?
Dopo certi avvenimenti capitatimi, non so se c’è più freddezza in me, che in chi mi dovrebbe curare, come quando hai provato un sentimento così forte, che chiunque venga dopo, ti pare la brutta, bruttissima copia, l’inaccettabile e improponibile tentativo di cercare un qualcosa di cui ti rimane soltanto la nostalgia. E anche qui, non ti manca mica il medico, di medici ne hai tanti a disposizione, sono le persone che mancano, quell’empatia che si costruisce nel tempo, quell’incontro tra due sensibilità. Ti manca quell’istante in cui una smorfia disvela verità, colta sul filo delle maschere che i ruoli c’impongono: è la crepa che ci restituisce la dimensione umana delle cose.
Se vivessi il tutto con la stessa superficialità con cui sfiorano spesso il nostro dolore, mi accontenterei di questo nulla.
Spero che tu sia un medico che sappia cogliere nell’immensa standardizzazione dei meccanismi, l’elemento che si distingue e che magari sia anche in grado di investire in questo: questa è la mia speranza.
Io sono qui per raccogliere le riflessioni del tuo percorso, per donarti affettuosamente lo sguardo dell’altro, scoprirai che saranno più le volte che le nostre strade s’incontreranno, piuttosto che quelle in cui finiranno per dividersi.
Un abbraccio cara, Stefania
Vedi anche “Carteggi 1”