Carteggi (1)
Parigi, 20 ottobre 2012
Cara Stefania,
finalmente una mattinata libera per scriverti con calma.
Che dirti, i tuoi post come sempre sono un incredibile spunto per la riflessione, per la forza che trasmetti, per quell’incredibile tenacia che ti contraddistingue. E arrivano al cuore, mi ritrovo a commuovermi perché posso solo immaginare quanto estenuante, doloroso sia un percorso con il fardello della malattia. Ma mi lascia senza parole, ogni volta come se fosse la prima, la tua straordinaria capacità di sublimare questa sofferenza, di conviverci, traendone un grande insegnamento di vita. Attraverso i tuoi scritti, vedo una ragazza che afferra ogni brivido del quotidiano, che cerca di vivere pienamente, in maniera intensa.
Quello che voglio dirti è che, dal tuo bilancio dei primi 30 anni, ne ricavo l’immagine di una grande forza, di un insopprimibile spirito guerriero che difficilmente tende ad arrendersi, ma è anche nella tua fragilità che mette radici il tuo essere così combattiva.
La tua fragilità ti rende umana, ti dona quell’empatia in grado di comprendere, non solo coloro che condividono con te il tuo stesso percorso, ma persino chi si trova dall’altra parte della scrivania.
Ed è quello che mi ha colpito incredibilmente.
Lo “stringersi nel camice” che descrivi nel tuo racconto, è un gesto che mi sono trovata a fare, inconsapevolmente, tante volte, e che ho osservato altrettanto di frequente. E così tutti i dubbi, il fardello del senso di colpa che, ahimè, ho sperimentato prematuramente, non sono così immediati da percepire. Soprattutto da parte del paziente, forse per una sorta di difesa, forse perché spesso i medici sono i primi a non spiccare per umanità, non si tende a concepire il curante come colui che possa soffrirne di questo ruolo, spesso tanto gravoso.
E si ritorna al discorso di quanto stupido e inconcepibile sia questa suddivisione dei ruoli, queste barriere che ci vogliono inculcare dai primi anni dell’università, questo pensiero dicotomico – della serie o sei paziente o sei medico – questa cultura del distacco, quest’affannarsi a ricercare un rapporto sterile, è alla base dei tanti fallimenti di umanità che hai incontrato nel tuo percorso. Io credo, invece, nel flusso di energia, nei sorrisi, nelle carezze. Non servono di certo a curare, a guarire, ma a rendere un po’ meno amari certi istanti, questo sì.
Non so che medico diventerò, non so se riuscirò mai a essere un neurologo ma, devo confessarti, che in questa mia scelta tanta parte ha avuto il conoscerti. Mi hai permesso di capire che medico vorrei essere, ma soprattutto che donna vorrei diventare.
Non voglio che questa mail assuma i toni di un’adulazione, ma ancora una volta voglio ricordarti quanto ti ammiro e che persona straordinariamente in gamba sei. Destinata a lasciare il segno.
E il mio augurio, per i tuoi prossimi 30 anni di vita, è di combattere, combattere sempre, senza aver paura dei momenti di prostrazione. Quelli servono a ritirarsi in sé e capire dove andare a scovare le energie, e anche a conoscersi un po’ meglio.
Vivi sempre così intensamente, con quella passione che viene fuori dalla tua penna, con quel guizzo che ti permette di avere uno sguardo acuto sulle cose del mondo. È quella la speranza che ti anima e che ti salva dalla rassegnazione.
Un abbraccio forte e spero davvero, un giorno, di avere la possibilità di prendere un caffè (o uno spritz magari!) insieme e farci una lunghissima chiacchierata!
F****
Vicenza, 21 ottobre 2012
Carissima,
anch’io ritaglio miracolosamente spazi per scrivere, tra una faccenda e l’altra.
Tenace, forte, coraggiosa, questo è quello che traspare da quello che scrivo, è quello che mi dicono le persone che incontro, eppure mi sento sempre così fragile, sempre più, e le vostre lettere, i vostri pensieri, mi sono così di conforto quando il peso è troppo opprimente e non riesco a portarlo, quando il futuro appare un’ombra dolorosa e il presente insopportabile.
Scrivo in una poesia dell’ultima raccolta:
Non so vivere
che così forte da travolgerti,
da attraversarti,
così fragile da svuotarmi,
da prosciugarmi,
allo stesso tempo.
Sentire così profondamente le cose è a volte meraviglioso, altre volte devastante. Ma non so fare altrimenti.
Sarai un bravo medico perché avrai tanti dubbi, hai tanti dubbi. Il dubbio è metodo, il dubbio è la certezza di non elevarti mai al di sopra della tua essenza precipua che si chiama umanità. E quando la scienza si mostrerà in tutta la sua vanità, sarà il dubbio a salvarti.
Vorrei apparire un po’ meno caparbia e un po’ più impaurita dalle cose del mondo. La maschera del cinismo è la più palese delle mie debolezze e spesso indossarla è difficile, e le mie ferite hanno nomi e cognomi, non sono diagnosi o prognosi, ma hanno occhi, mani, sono ricordi che si perdono nel tempo.
I tuoi pazienti ricorderanno questo di te, i tuoi capelli, le tue mani che scrivono sulla cartella, la tua voce, il tuo sorriso, la tua commozione, se ci sarà, un tuo atto gentile o scostante, ricorderanno cioè la tua persona e poi racconteranno, in ultima istanza, come sullo sfondo, di tutta la parte clinica.
Come volontaria, sono stata l’ascoltatrice privilegiata di tante storie, e i pazienti sai, raccontano tutto per filo e per segno, perché per loro sono momenti decisivi della vita e li ricordano bene: si ricordano persino cosa hanno mangiato quel giorno, dove hanno comprato le pantofole che indossavano per quel ricovero, se il medico che li ha visitati aveva le mani fredde, se aveva il camice macchiato, se pioveva o c’era il sole. E alla fine del racconto, se il termine scientifico non è troppo complicato, ti dicono anche la diagnosi o la terapia che gli è stata prescritta.
Una miniera per uno scrittore, ma questo cosa ci dice? Che la terapia inizia sin dal primo sguardo tra due persone, non tra medico e paziente, tra due persone.
Un giorno, ci prenderemo un pomeriggio per dirci queste cose di persona, hanno un altro sapore e si gustano meglio.
Buona serata cara,
Stefi