Capitalismi: modelli a confronto (2)

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Le cattedrali nel deserto della Sardegna e i distretti del Nord-Est (seconda parte)

veneto

Il capitalismo è sopravvissuto al comunismo. Bene, ora si divora da solo. – Heinrich Karl Bukowski

 

È altrettanto terrificante verificare la prepotente presenza umana sull’intero territorio padano, l’assoluta assenza di spazi lasciati al libero sfogo naturale, la trasformazione paesaggistica che non conserva superfici alternative all’inurbamento, alla produzione agricola e industriale, al cemento, al mattone, all’asfalto del proliferante crescere del numero delle strade: i campi, contigui al passaggio delle auto e di tutti i tipi di altri mezzi, generano l’angosciante sensazione che sulla tavola mangeremo in abbondanza certo, soprattutto diossina. I colori del cielo soffocano sotto la pesante cappa dello smog e solo il risveglio primaverile della natura, con quel verde brillante delle zone prealpine, restituisce la sensazione che in fondo non è andato tutto perduto.

Eppure in questa palude, dove la Serenissima per secoli aveva affermato il suo dominio e, in seguito, la conquista austriaca e francese ne avevano privato le popolazione della sua prosperosa indipendenza, questa si piegava per lungo tempo alla miseria e alla fame, trascinandosi in una serie di ondate migratorie.

Che cosa spinse dunque il Veneto a divenire dagli anni ’60 in poi, il traino dell’intera economia nazionale, insieme a tutto il Triveneto? Restava, a tesoro dei posteri, un passato di Comuni e Signorie, la disciplina amministrativa veneziana prima e austriaca poi, l’ingegno e l’iniziativa dell’esperienza mercantile, che ne hanno forgiato la cultura del rischio, al quale non mancano alcune furberie di stampo decisamente più latino: ancora oggi il Veneto resta la regione con il più alto tasso di evasione fiscale, i tentativi di non rispettare le leggi sul lavoro si moltiplicano, grazie alle nuove forme di contrattazione, lo sfruttamento della manovalanza, soprattutto di provenienza straniera, è una realtà.

Nonostante questo, gli innumerevoli investimenti sul territorio, anche da parte di aziende ormai diventate multinazionali, permettono una maggiore occupazione, rispetto alla media nazionale, e l’acquisizione dei principi della contrattazione collettiva, la possibilità per il lavoratore di scegliere un’occupazione più confacente alle proprie necessità. Più il livello formativo è alto, più il ventaglio di offerte appare interessante. Certo la crisi ha determinato un brusco calo produttivo e dunque occupazionale anche in Veneto, ma per una sarda appare ancora “grasso che cola”.

Morire nel Nord-Est, impiccati nel proprio capannone, non è che l’inammissibile effetto di un prolungato benessere in cui i piccoli imprenditori si sono adagiati, senza adeguarsi ai cambiamenti del mercato e della società, incapaci di ripensarsi oltre le creste sulla tassazione. La piccola e media impresa, fatta spesso da piccoli proprietari con un basso livello scolastico, aziende a conduzione familiare dove non c’è altro patrimonio delle proprie braccia e dello spirito d’iniziativa e concretezza, tipicamente veneto, non ha varcato in molti casi la prova della spietata longa manus dei meccanismi speculativi e bancari. Abbiamo assistito all’indifferenza politica, e mentre da una parte si glorificava il modello italiano dei distretti industriali, dall’altra si lasciavano deperire.

Nella mentalità veneta, non conta tanto il tracollo finanziario di per sé, ma la vergogna di non aver lasciato un futuro ai propri figli, di aver fallito dove il proprio padre, o il proprio nonno, lo aveva strappato dalla fame. Intanto che si piangevano i suicidi per bancarotta, non ci si rendeva conto che stavamo facendo le condoglianze a un intero sistema.

Eppure, l’imprenditoria veneta ha deciso di non arrendersi: appare sempre più viva la consapevolezza che per ripartire abbiamo bisogno di cambiare modello di sviluppo, a cominciare dall’ecosostenibilità. No, i veneti non sono più splendidi, sono semplicemente più astuti, fiutano la convenienza.

Dopo l’alluvione del 2010, che ha colpito Vicenza e parte del padovano, il dissesto idrogeologico del Nord-Est è tornato a far parlare di sé. La cementificazione spaventosa, l’inquinamento di aria, terra e acqua, in particolare a Marghera e Mestre, la questione della Laguna di Venezia, sono tutte cose che hanno costretto i veneti a fare una riflessione profonda.

E allora l’economia riparte da studi e finanziamenti mirati, riguardanti l’ecosostenibilità, l’energia pulita, il pensare un’architettura e un design a misura d’uomo, in tutte le sue sfaccettature, compresa la questione della disabilità, il rispetto dell’ambiente, l’idea che è ora di smetterla di costruire per superman, ma piuttosto per tutti, “for all”, come si usa dire. Si ricomincia dalla formazione, anche degli stessi imprenditori, come già avviene da parte delle associazioni di categoria. Si ricomincia dalla ricerca, dai rapporti con l’Università, locale ed estera, da un uso virtuoso dei finanziamenti europei, dal superamento dei campanilismi, senza perdere di vista la tradizione, ma per volare più alto della provincia italiana.

C’è ancora tanta strada da fare, e pur restando i molti limiti del capitalismo all’italiana, se il Veneto vincerà questa sfida, si confermerà il volano dell’economia nazionale. Per vincere la scommessa “il piccolo non è più bello”, la grande impresa torna in auge per non essere schiacciati dal mercato globale: è necessario superare l’individualismo e il particolarismo, bisogna ripensarsi in termini di cooperazione; questo, a dir la verità, è maggiormente utile anche per la tutela dei lavoratori. E alla politica un monito: nessuno più dovrà esser lasciato solo, al punto da mettersi un cappio al collo.

Resta ancora da giocare una carta importante per il progresso della società: il ruolo del lavoro nel processo di sviluppo comune, ripensare al lavoratore come risorsa necessaria e insostituibile su cui investire, non da consumare fino allo stremo, ma come persona che arricchisce l’azienda con il suo saper fare e viceversa da formare, creandone non solo l’ingranaggio di una macchina, ma la forza motrice.

Ma questa è un’altra storia.

 

Stefania Calledda

 

Vedi anche “Capitalismi: modelli a confronto (1)”

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