Allo specchio: quello che non si vede
La necessità di scrivere queste righe è nata a maggio, ma le pubblico soltanto oggi dopo lunghe elaborazioni interiori, modifiche dell’assetto del testo, tagli, sostituzioni di vocaboli. Non credo si comprenda quanto impegni umanamente scrivere di sé, quanto lavoro di fine intaglio ci sia dal punto di vista letterario, quale ricerca, quale travaglio intellettuale. E ogni volta che lo leggi trovi un refuso, un ritocco da fare, non è mai perfetto quello che scrivi, potevi dire di più, potevi non dire, potevi dirlo meglio, soprattutto.
Dicono che i gatti siano abitudinari. In effetti, la mia gatta lo è, e non è chiaro se sia io a somigliarle o viceversa. Sono così abitudinaria che potrei definirmi persino compulsiva. Le azioni si ripetono fino al momento in cui, in me, scatta un senso di ribellione alla mia stessa monotonia ed è sempre una scelta radicale, che rompe ogni equilibrio per ricrearne un altro.
Così, accade che passi il badge nella timbratrice, esca dall’ufficio e percorra la solita strada verso casa. Mi piace vedere il sole tramontare sui colli, sui campi di mais, sui vigneti prossimi alla vendemmia. A volte, mi fermo al vicino supermercato per comprare qualcosa per cena o un buon prosecco e stuzzichini per l’aperitivo serale, che amiamo prendere in terrazza. La gatta accoglie con il suo miagolio il mio ritorno, come per dirmi “sono qua”. Una carezza sul suo dorso, un bicchiere d’acqua e una bustina di magnesio e potassio e via, in camera da letto, per spogliarmi degli abiti che ho indossato per tutta la giornata.
In primavera, quest’anno, non ha fatto che piovere, preferivo dunque non avventurarmi sul ponte che sovrasta il Bacchiglione. Per quel freddo umido che mi portavo sin nelle ossa, adoravo immergermi nella vasca, acqua bollente che rilassava i muscoli e mi restituiva uno spazio solo mio, mentre Matteo mi avrebbe raggiunto a casa solo più tardi, a causa dei diversi orari di lavoro e delle distanze. Con il sopraggiungere dell’afa, ho scelto una bella doccia fredda e di accendere il condizionatore, subito dopo aver appoggiato la borsa sul letto.
Altre volte il dopo lavoro è occasione d’incontri, di spritz che richiamano progetti. «Vorrei un po’ di ironia nel testo che ti chiedo di scrivere», mi ribadisce. «Non sono molto brava in questo caso, non sono tanto ironica, non credo di poterti aiutare», commento allora. «Oh, sei molto peggio», incalza con aria decisa e birbante, «Sei sarcastica!». È vero, terribilmente aggiungo.
Non c’è mai innocenza nei miei occhi, c’è studio, c’è curiosità, empatia, sei per lo più un personaggio, raramente una persona. Sfoglio la vita come un libro, ma se lascio una piega nella pagina, un segno di matita, allora sei destinato a restare. E le persone che restano, comunque vada, lo fanno per sempre.
Nel silenzio della casa, le immagini, i volti, le voci, ritornano caoticamente, il passato e il presente si ripetono alla rinfusa in un gioco di specchi deformanti dove non è chiaro cosa sia reale e cosa sia, invece, un residuo immaginifico.
Nella mia stanza, finisco di asciugarmi, poso distrattamente l’accappatoio sul letto, e mi guardo nella mia nudità, allo specchio. Sciolgo i capelli, raccolti, come imbrigliati, dalla solita pinza: i ricci rame cadono sulle spalle, un boccolo più malizioso scivola sul seno.
Scrivo, sono abituata a osservare con morbosa attenzione, a descrivere le cose con minuzia maniacale, a cercare le zone d’ombra, laddove la luce domina, a riconoscere la bellezza, a scavarla e sentirne la sua celata ruvidezza. Non cercherò di costruire un’ingenua modestia, un rossore letterario come a mettere una maschera sulla realtà. So di essere bella, riesco a vedere la perfetta armonia del mio corpo, le cicatrici che il tempo lascia pian piano scomparire, la candida pelle che fa risaltare il colore dei capelli e la profondità degli occhi, le mani delicate, le dita da violinista. Lo vedo, mi racconto da sempre senza ipocrisia. Vedo anche quello sguardo triste, il piglio severo di chi ha vissuto troppo in troppo poco tempo, e non c’è gioia nello scoprirsi, ma un dolore lontano.
Pensi che il caso ancora ti sia propizio, che i muscoli tengano ancora, nonostante tutto, te ne meravigli quasi. Certo, non ti abbandoni alla fatalità, dedichi sempre un po’ di tempo all’esercizio, perché ancora puoi, ti dici, perché non puoi tradirti, non puoi lasciarti andare. Ti adombri nel ricordare alcuni tuoi compagni di permanenze ospedaliere, rivisti nelle foto peggiorare in pochi anni, annientati dalla malattia che li trasforma anche nei tratti. Ci sono anche loro, quelli che se ne sono andati, sono anime che oltre il ponte, vedi riaffiorare dal Brenta: allucinazioni, visioni, direi semplicemente memorie.
Ognuno fa il suo percorso, mi ripugna chi colpevolizza i malati per la loro condizione, presentandogli ogni volta una diversa panacea, come se non bastasse la croce che portano, per fargli bere un po’ d’aceto. Ho imparato a rispettare le scelte di tutti, laddove non c’è certezza. Pensi che sia soltanto una questione di tempo, di fortuna, già, tanti anni di studi e di propagande farmacologiche per aggrapparti alla fortuna, come nel Medioevo. Consulterò i fondi dei troppi caffè che bevo.
Eccolo, il solito sarcasmo, duro, pungente come una staffilata.
Ti guardi, sei diventata donna, hai lasciato la ragazza a Cagliari, la studentessa con la sua esistenza irrisolta e sospesa. Non sei mai stata così bella come adesso, eppure, eppure sì, eppure di tanta apparenza è quello che non si vede che ti devasta, perché gli altri non lo sanno, non la vedono la tua mutilazione: non ti senti diversa da un amputato, proprio lì, all’altezza della nuca, lungo la schiena, in fondo, dove il messaggio nervoso si ferma, dove muori un pezzo alla volta nell’impotenza generale. È una mutilazione non solo del corpo, ma dello spirito, della vita.
Appoggiata allo stipite della porta che dà sul soggiorno, porto il calice alla bocca, un buon Valdobbiadene, mentre la voce di Fiorella Mannoia e le parole di Ivano Fossati non mi sono mai state così complici. Sorrido, evocando frasi e azioni già vissute: commesse e parrucchiere che mi vestono e mi pettinano come se fossi la loro bambola di quando erano bambine, perché “con un corpo così ti sta bene tutto”, perché “dovresti osare di più”, perché dopo tre ore di lavoro persino le clienti presenti in negozio si complimentano per la mia chioma rossa, tranne le amiche di sempre, che ancora rimpiangono il mio biondo cenere, ma, del resto “staresti benissimo anche calva”, concludono.
Ti viene in mente anche la dottoressa di base precedente, mentre mi lamento della lombosciatalgia, il suo “anche così mal ridotta, sei comunque bellissima”. Le piace il mio modo di reagire, di gestire la mia malattia, mi dice “sei fantastica”, ma non sono capace di risponderle, mi pare che non ci sia alternativa a quello che faccio, non alla mia età. E quella nuova poi, che esordisce con “Immagino che tu non abbia grandi problemi di salute, così giovane!”. Così giovane, mi dice, già. “Ho la sclerosi multipla da tredici anni”, lo dico rapidamente, con freddezza, senza nessuna sfumatura nel tono, come si fa una puntura intramuscolo, come si leggono le istruzioni di un frullatore, lo dico così, perché fa meno male. Lei si rabbuia e si preoccupa di sapere di cosa ho bisogno, e mi gela nel sangue più il suo sguardo, che la diagnosi scritta nella mia scheda.
Penso al tecnico, un ragazzo, poco più che adolescente, che mi guarda furtivamente, mentre mangio, nella mia consapevolezza e compostezza femminile, che fruga con gli occhi verso le mie gambe accavallate, appena sotto il vestito, e io mi diverto per quel suo imbarazzo e quella tensione che appena s’avverte. Le mie gambe, lui non lo sa che non corro più, che non salto più, che non so ancora per quanto tempo camminerò. In quel momento sono solo il suo sogno erotico, la donna che non avrà.
Sono abituata ai complimenti, alle battute non sempre eleganti degli uomini, alle loro occhiate ambigue, ai loro gesti e alle loro parole provocanti, ma oltre la superficie delle cose, ogni volta che ho un movimento scomposto, ogni volta che barcollo, ogni volta che trascino la gamba perché sono troppo stanca, ogni volta che non riesco, che non posso, ogni volta non rimane che la mia mutilazione, e tutto il resto perde d’importanza, se mai ne abbia avuta alcuna. S.C.