A proposito di …
L’opinione pubblica è sempre fortemente scossa dal suicidio compiuto negli anni dell’infanzia, dell’adolescenza e della giovinezza. La reazione generale è tanto forte quanto il gesto stesso, presuppone una repulsione del senso comune che invece riconosce in quelle fasi della vita un, non si sa bene motivato come, momento di entusiastico accoglimento della vita.
Marcello Fois, in un libro dal titolo emblematico “Nulla”, ha raccontato una serie di suicidi, prendendo spunto da avvenimenti realmente accaduti nella città di Nùoro, mia città natale, molti dei quali compiuti da giovani. Il “nulla” di Fois, ripetuto ossessivamente per tutta la trattazione, artificio retorico riuscitissimo, ha molteplici sfaccettature, è il nome stesso della città, nell’agonia della provincia, per di più isolana e isolata.
I suicidi, in ogni parte del mondo, sono fatti di questo nulla. Il suicidio non è mai dovuto a un’azione esterna, l’insulto da un social network, l’umiliazione da parte di un idiota qualsiasi che si arroga il diritto di sentirsi migliore, insomma un qualcosa che ci ferisce esteriormente. Il suicidio è l’atto estremo di un lungo processo di annullamento dell’io, il tragico epilogo di un male di vivere che è lontano e lento, come altrettanto corrosivo.
Ciò che uccide non è l’azione brutale di chi odia, ma l’inerzia di chi ama. È quel “nulla” che circonda la persona, quella solitudine, quell’incomprensione, è l’assenza e mai la presenza, anche se conflittuale, che induce al grave e definitivo atto di scomparire perché ci si sente già inesistenti agli occhi, non di chi ci odia, ma di chi ci ama o di chi vorremmo che ci amasse.
Ci sono persone che riescono a percepire nella morte e nella sofferenza un qualcosa di più, uno spirito di cose che andandosene fa vibrare un senso di continuità. Qualcuno ne darebbe una spiegazione prettamente religiosa, altri scientifica. Personalmente mi limito a cogliere lo stato materiale che preferisco definire “sensibilità”, “empatia”, per quel fascino che molti artisti hanno saputo tramutare in forme pregevoli di grande livello intellettuale.
Tra queste persone mi ci metto anch’io, che sin dall’infanzia ho guardato al dolore con curiosità e non ho mai scansato nulla che avesse a che fare con la morte e la a sofferenza. Come tutte le persone con un acuto senso della minuzia e della precisione, tendo a carpire nel divenire drammatico e tragico della vita, particolari che ai più risultano insignificanti, per ripercorrerne infine i momenti come per ridarne un senso. La vita ha un senso anche nel momento più paradossale del suo termine.
Quella sera, alla guida dell’auto c’era Matteo, che citava un suicidio eccellente, di qualche personaggio famoso, non ricordo quale. A un certo punto Matteo mi chiese: «Te lo ricordi quel ragazzo che si suicidò? Stavamo ancora a Nùoro, aspetta, come si chiamava? Un ragazzo tozzo, robusto …». « ***», rispondo io allora con sicurezza, scandendo bene nome e cognome, come se il ragazzo fosse morto il giorno prima. «Sì, brava, come mai te lo ricordi così bene?» si stupisce a quel punto Matteo. «Perché lo avevo visto il giorno prima, fu una morte che mi turbò molto, non fummo in grado di capire, ci parve così assurdo, mi sentii in qualche modo colpevole perché non avevo capito» dissi allora sommessamente. «L’amico di tutti e di nessuno, lo prendevamo in giro, era proprio un personaggio» ricordò, fermi a un semaforo. «Sì, si è ammazzato salendo su una gru, mentre tutta la città guardava la partita della nazionale», continuai con un poco di fiato, quello che la tristezza della memoria mi lasciava. «Ah sì, la partita, è vero!» disse allora Matteo. «Noi ridevamo e tifavamo, era pieno di sbronzi tricolore, sbattuti davanti al maxi schermo e per la strada, e lui, lui ha preso una corda ed è salito sulla gru, nel quartiere più degradato della città, e si è lanciato, impiccandosi», commentai allora con stizza e disgusto. Matteo annuiva, dicendo: «Già, che fine assurda». «L’ultimo sfregio», aggiunsi con ribrezzo, «fu quello che dissero il giorno dopo, perché *** fu talmente idiota da non saper nemmeno suicidarsi, dissero. La corda era troppo lunga, lui troppo pesante, così si ritrovò a toccare a terra con la punta dei piedi, e morì agonizzando per un po’, morì soffocato, con la lingua blu, fuori dalla bocca, e non perché gli si spezzò il collo, morì di una morte atroce, se mai può esserci una bella morte. Ma al funerale non mancò nessuno». Matteo era sempre più attonito: «Accidenti, perché mai ricordi tutti questi particolari macabri?». Risposi: «Perché è un suicidio che ho vissuto da vicino, perché lo conoscevo, perché questa storia mi ha sempre lasciato tanta amarezza e ora che ho vissuto la depressione, la comprendo di più e mi tormenta».