Ritagli di vita vicentina
Vicenza, 16/03/2011
In Veneto le piogge tendono a protrarsi per più giorni; accade allora che ad un’umidità crescente, si affianca l’oscurarsi impenetrabile del cielo, e la luce si fa così tenue, per l’intera giornata, che non riesci a distinguere in quale parte del giorno tu sia, accompagnando il tempo con l’artificio dell’elettricità e una certa sonnolenza, che dà il senso di un perenne pomeriggio autunnale. In questo tempo sospeso, anche la mia gatta finisce per acciambellarsi da qualche parte nella casa a riposare.
Eppure, i segnali della primavera si avvertivano già, qualche giorno addietro, perché il sole batteva forte sulle nostre finestre. Nora, così si chiama la giovane gattina, si rotolava in terrazza e tentava la caccia su malcapitati insetti di passaggio, o finiva per affacciarsi tra le sbarre della ringhiera, curiosando o ascoltando rapita, canti d’uccellini che non osano, neppure per gioco, avvicinarsi alla nostra predatrice.
In quella pausa raggiante, tanto che l’inverno pareva terminare, Vicenza ha assunto i suoi reali colori, senza quel velo di cupezza che una troppo breve giornata lasciava la città arresa alla notte, ed il lavoro, la fatica di una storia ininterrotta d’iniziativa produttiva si è palesata, al di là dei guard rail, nell’avvicendarsi dei capannoni e delle aziende agricole, un susseguirsi di campi di radicchio e viti, cavoli ed asparagi. Da Vicenza ad Arzignano, non un solo metro di terra è lasciato incolto, e dove non c’è il cemento, c’è l’agricoltura, insomma la mano dell’uomo non accenna cessione alcuna alla natura. È ad Arzignano che sediamo solitamente ai tavoli de “La Stua”, la stufa tradotto in italiano, a mangiare una di quelle gustose bruschette o piadine, che rigorosamente ordino nelle versioni più montanare.
Anche oggi in centro, è allertata la popolazione civile, si mettono sacchi di sabbia, anche stavolta dunque, il Bacchiglione non si farà domare, e lontano dal letto del fiume, non sentiremo la minaccia dell’esondazione e finiremo per commentare sullo sviluppo industriale disordinato ed incurante di questa terra.
Dalla finestra, mentre la pioggia incessante riempie le strade, vediamo sventolare l’ennesimo tricolore, sul locale regno dello spritz vicentino, “Dolce vita”, che ci dicono rivitalizzarsi già in primavera, mentre nelle stagioni fredde la città chiude le sue persiane al mondo verso le sei, non molto diversamente da quanto accade a Verona, dove la Bora è il peggior nemico dell’attivismo cittadino. Tutta Vicenza si riempie di bandiere tricolore, è una reazione evidente della popolazione a troppi anni di affermazione leghista, così in tanti gridano al mondo “io sono italiano”, e un filo sottile che s’insinua per le strade e i nomi delle vie più importanti, ripercorre le tre R che hanno costruito questo Paese: Rinascimento, Risorgimento, Resistenza.
Io sono impressionata da questo sventolare di bandiere, esterrefatta da una così rabbiosa manifestazione, c’è che non ci si arrende all’assimilazione leghista, c’è che il Veneto l’Italia l’ha fatta e toglie dalla naftalina le camice rosse. Penso che per noi sardi è più difficile comprendere.
Vicenza è una perla che dà luce, con le sue peculiarità architettoniche, nel cuore della sua antica civiltà agricola; Verona è un solitario, un diamante splendente in mezzo ai capannoni con le insegne sfolgoranti dell’economia trascinante di cui è capitale. Basta uscire non troppo lontano da Vicenza e leggere “Dainese”, “AIA”, “Acciaierie Valbruna”, “Inglesina”, “Diesel”, “Fiamm”, Fossil ecc. Ancora non riesco ad abituarmi all’idea che è qua che si produce una fetta preponderante dell’economia italiana, e lo si fa con le mani operaie dei tanti immigrati che nel mio condominio costituiscono la maggioranza dei suoi abitanti: nell’enorme caseggiato, si distinguono più palazzi, nel mio in particolare, si nota una disposizione per scala interessante. Avviene che la scala più lontana è per lo più costituita da persone di pelle nera, nel mezzo invece ci sono soprattutto slavi e poi ci siamo noi, la nostra è una scala mista, a forte componente latino-americana a dir la verità, ma non mancano siciliani, sardi, cioè noi e una certa famiglia Atzeni, e forse avremo un nuovo vicino romano. Tra i flauti peruviani, gli unici a non portare ancora l’accento veneto siamo noi, al che iniziamo a pensare di essere i veri extracomunitari.
La diffidenza e la paura dell’altro è tanta, tutti si chiudono a tripla mandata nei loro appartamenti e nei corridoi e garage condominiali, gli incontri sono sempre fugaci, rare volte ci si saluta. Così, ogni tanto spezzo questa consuetudine e la scusa normalmente è un bambino, un animale domestico, perché alla fine basta un sorriso ed un “buongiorno”, un gesto cortese magari, e si ritrova un po’ di senso d’umanità; i bambini soprattutto, senza pregiudizi e timori ancestrali, sono meravigliosi.
C’è che il senso d’appartenenza ed integrazione passa anche dal vino e dal cibo, e si finisce allo stesso supermercato a fare la spesa per comprare lo stesso prosecco veneto o lambrusco emiliano, lo stesso pane, i canederli e gli spatzle tirolesi, i bigoli vicentini, da qualunque parte del mondo tu venga. S.C.