Il grande bluff (2)
Vivere al confine tra la provincia di Padova e quella di Vicenza significa poter godere delle risorse che entrambe le province offrono. Significa altresì, muoversi agevolmente lungo la statale o l’autostrada verso i due capoluoghi, e per chi si lamenta, beh, lascio loro ignorare cosa significhi prendere una qualsiasi strada in Sardegna.
Io e Rossella, quella mattina, decidemmo di incontrarci per una colazione a Vicenza Est, un punto a metà strada tra le nostre due abitazioni. Ce l’eravamo promesso un mese prima, sedute sulle poltrone del Centro Sclerosi Multipla, in Ospedale, rimandando i nostri discorsi femministi a un caffè fuori da quel non troppo ameno luogo di ritrovo.
Una giornata particolare, quel sabato, un clima incerto come quell’andirivieni di nuvole, lungo la strada che mi porta a Vicenza, le montagne sullo sfondo di un percorso tranquillo, che mi lascia arrivare con venti minuti di anticipo. Io non amo i ritardi, sono condannata a lunghe attese e continui fugaci sguardi dell’orologio, che mi danno l’aria da terrorista o da serial killer o più semplicemente da psicopatico.
Mi siedo all’esterno della pasticceria e già la cameriera si avvicina per chiedermi se voglio ordinare. Chiedo tempo, sono arrivata in anticipo e aspetto una persona. Passa mezz’ora e a questo punto sono io a richiamarla, che mi porti pure un cappuccino e una brioche alla crema, mentre aspetto. Faccio colazione. Aspetto ancora. Un’acqua tonica, grazie. Rossella non arriva.
Rossella mi scrive su Watsapp che si è persa e vaga come una sonnambula nei pressi della Caserma americana. Cerco di aiutarla, ma il tempo passa. Infine, nonostante il suo orientamento da pipistrello nelle ore diurne, mi raggiunge, scusandosi, prostrata dalla fatica e mortificata come mai.
“Non importa”, dico allora io pur spazientita. Lei ordina un succo d’arancia, si è fatta l’ora dell’aperitivo, io trattengo la cameriera con un “paga la signora”, perché del mio carattere tanti elementi sono andati smussandosi, tante spigolosità si sono rese più accomodanti, ma lo spirito di giustizia tra Dike e Nemesis resta preservato, sarà per il mio segno zodiacale, la bilancia, o la provenienza barbaricina, l’offesa deve essere sempre sanata.
“Certo”, risponde lei che ancora mortificata cerca di farsi perdonare della sua mancanza. Superata la questione, tra il serio e il faceto, nel tremore delle parole e dei gesti scorgo un’angoscia terribile, un susseguirsi disordinato e incalzante di eventi futuri da incastrare nel quotidiano vivere, visite, risonanze magnetiche, esami, disperata solitudine, ricerca di punti fermi nel precario esistente e poi l’incertezza assoluta del dopo, il silenzio dello sconosciuto futuro.
Ascolto, io le ho già vissute queste parentesi ansiogene che riempiono le giornate e i pensieri senza soluzione. Le chiedo allora: “Di che hai paura? Cosa pensi che cambierà?”. Ci pensa solo un attimo perché la risposta è la stessa per tutti e Rossella con sicurezza dice: “Nulla”.
Già, la nostra condizione a malapena viene sfiorata in tutta questa spasmodica e disperata medicalizzazione, sterile e incapace di ristabilire priorità razionali. “Non so se andare in vacanza quest’estate… con il pensiero che poi a settembre non avrò nemmeno il tempo di riposarmi e metabolizzare quei pugni nello stomaco, quei forse, vedremo, proviamo”.
Sei tu paziente, tu malato, tu persona a dover restare più lucido della scienza medica stessa, ricordandoti che non sei una cartella clinica, una fiala di sangue da analizzare, una risonanza magnetica da leggere. Devi ridare senso alla vita, è così che tutto si riordina. “Ci penserai a settembre, adesso devi solo pensare a cosa mettere in valigia, la vacanza non è solo dal lavoro, è anche dalla gestione della malattia, dalla burocrazia, approfittane per staccare da tutto”, dico con serena fermezza e continuo dopo un altro sorso, “Anche gestire la malattia è un lavoro purtroppo, è fatica soprattutto, fisica e psichica. La malattia farà comunque il suo corso e dopo che avrai fatto analisi ed esami, nella tua vita non cambierà nulla, continuerai il tuo percorso nella malattia. Tanta sollecitudine per dirsi che stanno facendo qualcosa, ma poi, con i lividi nelle braccia e il passo sempre più pesante, a casa ci torni tu. Non lasciarti trascinare”.
Rossella inizia a respirare più piano, la voce si fa sicura e le mani non tremano più. “Vorrei avere la tua lucidità”, mi dice allora. Sorrido, “Mi drogano abbastanza per esserlo. Ho imparato che è tutto un grande bluff”, aggiungo con tristezza.