Comunque e nonostante
Il racconto che segue è stato pubblicato nella raccolta “Storie di ordinaria resistenza femminile”, ed è liberamente ispirato alla mia vicenda personale, anche se l’intento è quello di rompere il pregiudizio per il quale il soggetto disabile, in particolare una donna in età fertile, non riesce a essere percepito come essere sessuato, capace di procreare e accudire. Con questo racconto vi auguro buone feste, e ci leggiamo l’anno prossimo perché ho ancora dei lavori da terminare per prossime pubblicazioni. Intanto, buona lettura.
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“Per quanto difficile possa essere la vita, c’è sempre qualcosa che è possibile fare. Guardate le stelle invece dei vostri piedi” Stephen Hawking
Passarono molti anni prima che Marta riuscisse a perdonare alla vita l’essersi dimostrata così faticosa, per quel suo incedere che si faceva sempre più gravoso, lasciandola a una terribile consapevolezza di caducità immanente e disperata impotenza. L’aveva perdonata, diceva sempre a coloro che la commiseravano per la sua disabilità motoria, perché la malattia aveva colpito le sue gambe e non i suoi pensieri, e per quella lucidità viva e vivace le pareva di poter “correre” molto di più di quanto i propri arti avrebbero mai potuto fare.
E Marta, in effetti, il suo percorso lo aveva saputo affrontare sin da subito, perché a vent’anni non ci si può permettere i “non riesco”, i “non ce la faccio”, i “non posso”. A quell’età la vita è un arrampicarsi frenetico con le unghie conficcate nel presente e gli occhi spalancati per farsi abbagliare dal futuro.
Eppure, per lei la giovinezza non fu mai spensierata, ma piena di angoscia, e per fortuna le intemperie del tempo sono come il maestrale sulle vette più irte: per quanto inespugnabili, finiscono per soccombere e modellarsi sotto lo sferzante continuo moto delle cose.
Accade così che la rabbia e la fame di esistere, comunque e nonostante, lascino il posto al silenzio, come quando la battaglia finisce e si piangono le vittime e si ritirano i vessilli insanguinati. Ma Marta era ancora troppo giovane per ammainare la bandiera, tanta vita ancora che si srotolava davanti a lei come una pergamena ancora da scrivere. Lei che ogni notte si addormentava senza speranza e rimetteva insieme i pezzi ogni mattina per cominciare la giornata, entrare in ufficio e fingere che davvero fosse importante quel dimenarsi produttivo, continuare a leggere e studiare per un’altra pubblicazione, nei ritagli di tempo, sottratti alla quotidianità cruda e a volte svilente.
«Sono stata già condannata dottor Marras», disse Marta seduta in ambulatorio, con il suo bastone tra le gambe, stringendo forte il manico con le due mani.
«Da chi?» chiese risoluto lo psichiatra che da tempo la seguiva per la sua depressione, per la quale si era nuovamente accartocciata in un silenzio inquieto, in un pianto muto.
«Gli altri, certo non tutti, alcuni cercano di darmi coraggio, ma io sento, e forse sono proprio io per prima ad avermi condannato come madre, prima ancora di diventarlo, perché una donna disabile per la gente non ha diritto, ecco, a desiderare una maternità, anzi, può forse desiderarla, ma non ambire a essere madre davvero» spiegò allora, mentre la voce ci faceva più tremolante e lo sguardo continuava a fissare la penna sulla scrivania con insistenza, per non piangere ancora.
Il volto del dottor Marras divenne più disteso e si aprì in un sorriso: «Lei è una donna come tutte le altre e può, è un suo diritto naturale avere questo desiderio». Marta lo incalzò subito dicendo: «Sì, ma la domanda che tutti si pongono è sempre la stessa, la stessa che mi toglie il sonno, “sarò in grado?”, “sarò una brava madre?”».
Marras si ritrasse, appoggiandosi sullo schienale della sedia e con aria bonaria e tutto il peso della sua stazza corpulenta disse: «Le risponderò come si rispondono tutte le madri di questo mondo, soprattutto alla prima gravidanza…» La pausa che seguì fu breve, ma carica: «Non lo so!» e sorrise.
Uno squarcio di luce penetrò nella penombra della stanza, attraverso la persiana socchiusa, illuminando il viso di Marta che accolse quelle parole con un senso di sollievo, rendendosi conto di quanto il suo problema esistenziale fosse, proprio per l’importanza che l’abitava, insoluto, come tutte le cose più grandi e complesse del mondo, come se avesse chiesto il senso della vita, ma non per questo si fermò nel suo ragionamento, c’era abituata, per quel brutto vizio in cui coloro che hanno intrapreso studi filosofici, come lei appunto, finiscono sempre per cadere, la peggiore delle dipendenze, e allora continuò: «Mi chiedo, ascoltando le motivazioni che mi si gettano addosso per dissuadermi, che cos’è una madre? Perché a sentirli c’è solo lo sforzo fisico, la sguattera, la baby sitter, ma la madre, dov’è la madre?». Il dottore, con fare più serioso la interruppe: «Lei non deve avere paura, o meglio, la paura è naturale, è giusta».
A quel punto bussò qualcuno alla porta dell’ambulatorio, Marras invitò a entrare. Si trattava dell’infermiera che portava alcune carte da firmare e così ne approfittò per interpellare un’altra donna, una madre, appunto. «Mi scusi se le faccio questa domanda» disse rivolgendosi all’infermiera, «lei ha avuto paura quando ha saputo di aspettare il suo primo figlio?». «Beh…» rispose sorpresa la donna, che non capiva il perché di tale quesito, «sì, un po’, credo fosse soprattutto preoccupazione». «La ringrazio per aver risposto», disse allora il dottore, lasciandola tornare al suo lavoro.
Marta aspettò che la porta si chiudesse e con decisione esplicò meglio il suo travaglio: «Io non ho paura, ma sono realista e so già cosa mi aspetta nel mio futuro, e se prima era un forse, oggi è una certezza, continuerò a peggiorare e a perdere autonomia e per quanto il mio compagno sia sempre stato presente e di fondamentale supporto, io non voglio che tutto pesi sulle sue spalle, io voglio essere una madre presente, ecco, voglio essere una madre, punto, capace di accudire, non solo di essere accudita».
Marras saltò sulla sedia e disse con tono severo: «Il futuro, il futuro… in futuro lei sarà una madre, ecco, sarà tante cose, ma sarà anche una madre!», e così dicendo batté una mano sulla cartella clinica e continuò: «Le ho detto che lei sarà madre, non che sarà facile, ma la soddisfazione è più grande quando l’obiettivo è più difficile. Lei sarà madre, comunque e nonostante».
Negli occhi di Marta sfilarono quindici anni di malattia, le mille strategie per beffare la disabilità perché c’è sempre qualcosa che si può fare, anche se in maniera diversa, aiutandosi con la tecnologia o con ciò che la quotidianità offre, ciò che spesso fino al momento in cui non ne abbiamo avuto davvero bisogno, abbiamo ignorato. Marta aveva imparato che problema significa ricerca della soluzione, che cambiamento significa adattamento e che per tutto questo ci vuole intelligenza, quella che la sorte le aveva preservato, mentre la forza delle gambe diminuiva, i dolori aumentavano e ogni sforzo pareva vano.
Lasciò l’ambulatorio con le tasche piene di coraggio, razionale, costruttivo, come aveva sempre fatto, come quando si era promessa di non togliersi niente di più di quanto la sua malattia non le avesse già tolto, come quando strinse la mano dei professori il giorno della sua laurea, o quando i suoi studi entrarono in una aula di liceo o di qualche facoltà.
Sedette sulla sua auto modificata, come l’aveva voluta, per poter essere ancora autonoma, e si avviò verso casa, con l’autunno che riempiva di foglie i lati dei viali, e le nuvole che chiamavano pioggia sopra i palazzi e un battere vitale ad attraversarle i polsi.
Marta sapeva bene di non poter contare su quel corpo che si consumava, che non avrebbe potuto insegnare a suo figlio a camminare, a correre, gli avrebbe insegnato a rialzarsi, quando si cade, come le capitava spesso, gli avrebbe insegnato a non arrendersi di fronte agli ostacoli, come aveva fatto per tutta la sua vita, gli avrebbe insegnato il gusto del traguardo, quando tutto sembra impossibile, perché comunque e nonostante c’è sempre qualcosa che si può fare. S.C.
Brava Stefania
Grazie Davide!