Autunno berico
L’autunno finì per acquattarsi sotto le grondaie, all’ombra dei filari di vite, nelle pozzanghere ai lati delle strade, rivoli scuri in cui si specchiava un cielo d’indefinito grigiore, in una nebbia sottile che appena arrossiva, intorno alla sfera rossa del sole.
Poi lentamente s’insinuò per la Riviera, e foglia per foglia lo vidi riempire di colori i boschi, oltre le sterpaie dei campi del granturco ormai raccolto, un incedere accorto, silenzioso come appunto è la vita che attende il suo inverno, la sua fine imminente. L’autunno è così, assolutamente discreto, pur nella sua meravigliosa manifestazione.
È la stagione che preferisco, perché racchiude nel suo essere la mia dimensione. Quel fumare del tè, mentre appena percepisci lo scrociare leggero dello pioggia, oltre la finestra chiusa. La casa è allora una tana in cui vagano riflessioni e nostalgie, è una libreria a cui attingere, un profumo di caldarroste che sale dalla strada, un plaid che ti avvolge quando decidi di guardare un bel film o leggere un buon libro.
L’autunno è soprattutto malinconico, come me, e se ti soffermi a vedere la sua morte intrinseca, i cadaveri degli insetti che s’arrendono al sopraggiungere del freddo, la foglia che si accascia sul selciato, sul prato che brilla di brina, e dunque lo spogliarsi degli alberi, la solitudine degli spazi, svuotati e percossi, allora non ti accorgerai del vigore inquieto di un perenne tramonto. Rosso, giallo, viola, come ogni tramonto un rito che si compie prima della notte, splendida e cupa, ancora un ciclo perché l’esistenza è un ciclo.
Il mio autunno è un pittore che dipinge in punta di pennello i colori vivi dei colli e della città, è mio, come non lo sono le altre stagioni: anche quest’anno ti aspettavo, benvenuto.