Tutta la vita davanti
Compiere trent’anni e sentirli tutti, ma proprio tutti
Oggi compio trent’anni. Sono quelle date irripetibili, quei traguardi, che raggiungi pensando che sia arrivato il momento di fare un bilancio, di voltarsi per un attimo, ma senza soffermarcisi troppo, perché l’esistenza ti sfugge e c’è ancora tutta la vita davanti. Sì, è così che si dice, che hai “tutta la vita davanti”, ma quella che hai lasciato indietro?
In cuffia suona la mia playlist, un elenco di canzoni leggere, lasciate scorrere per addolcirmi la giornata, per rilassarmi. Alcune frasi restano, le lascio galleggiare tra i pensieri: mi pare che parlino di me, che mi seguano nella mia diteggiatura.
Avevo 18 anni, frequentavo l’ultimo anno del liceo, quello dell’esame di maturità. Una mattina scendemmo per la consueta ora di educazione fisica in palestra, ma io avevo difficoltà a scendere le scale, mi accorsi di non riuscire a saltare, a correre. Il professore m’invitò ad andare dal medico. Sono passati dodici anni, da quella mattina io non ho più corso, né saltato. Mi chiedo per quanto tempo ancora camminerò. Mi capita di sognare di prendere la rincorsa e saltare sulla sabbia come da ragazzina, adoravo il salto in lungo.
Avevo 21 anni, insistetti per avere un consulto fisiatrico. Quando la visita terminò, mentre la dottoressa scriveva per le fisioterapiste il mio piano riabilitativo, le chiesi ingenuamente: «Mi farete correre di nuovo?». Mi sono sempre chiesta come si possa sostenere una sofferenza così grande, guardare negli occhi un ragazzo, un bambino, sapendo che la sua vita non sarà più come prima. A me servirono molti anni per capire che cosa significa il “mai più”. Fatto sta che la dottoressa continuò a fissare il foglio e a scrivere, rispondendomi frettolosamente «Ora cerchiamo di farti camminare bene, poi vediamo». I più profondi atti d’umanità li puoi contare sulle dita di una mano, restano nella memoria come fotografie che pian piano si sbiadiscono, le lasci in fondo al cassetto per ricordarti le cose che più contano in una vita intera.
Avevo 25 anni ed ebbi modo di sentire che il farmaco che mi avevano detto di prendere era consigliato per i casi più gravi. Chiesi allora alla mia neurologa se la mia fosse una sclerosi multipla grave. Ancora una volta, mi parve un peso inumano, la domanda per me, la risposta per lei, che in fondo non aveva tanti anni più di me. Mi rispose: «La sclerosi multipla è una malattia grave del sistema nervoso, la tua è, diciamo così, una sclerosi multipla seria», una delle poche frasi intelligenti del mio percorso clinico. Avevo imparato a vivere le cose con distacco, come fanno dall’altra parte della scrivania, ma a se stessi non si può mentire per troppo tempo.
Avevo 20 anni, ricordo che al primo ricovero mi ritrovai a rincorrere vecchine con l’Alzheimer nel corridoio, mentre cercavano i loro cari che in quell’ospedale avevano finito per abbandonarle. Pensai che non avere più memoria fosse davvero terribile, poi, tanti anni dopo, ho iniziato ad ammettere che alcune volte è ricordare la vera malattia.
Quello stesso anno fui ricoverata in un noto ospedale di Milano. Una notte non dormii, nella stanza a lato una donna si disperò per tutto il tempo, gridando e piangendo, imprecando contro il personale: voleva essere cambiata, non aveva più il controllo degli sfinteri, era immobile in quel letto e le rimaneva soltanto la forza per tenerci svegli tutti, per denunciare la sua condizione e dire “non avete umanità, lasciatemi almeno la dignità, la dignità”. Le infermiere le risposero una volta sola per comunicarle che avrebbe dovuto aspettare il cambio turno del mattino. Quella notte imparai cos’è la dignità umana e promisi a me stessa che mi sarei spesa per tutta la vita affinché queste cose non accadessero più.
Ognuno di noi volontari, quando si sceglie di darsi agli altri, ha una motivazione prepotente, che non ti lascia scelta. Così, quando alcuni soggetti si scoprirono altruisti, buttandosi nel volontariato per pretendere un’angioplastica, venendo a dire a me di che cosa gli ammalati avevano bisogno e come dovevano essere trattati, trasalii. Mi chiesi dov’erano questi nuovi filantropi, quando sedevo accanto ai miei compagni e gli tagliavo la fettina di carne, perché le loro mani non riuscivano a stringere un coltello e una forchetta, o quando scrivevo per loro, quando leggevo per loro, quando i loro occhi erano impossibilitati. Dov’erano quando mi spiegavano le tecniche e le strategie per deglutire quando rischiavano di soffocarsi semplicemente bevendo un bicchiere d’acqua, dov’erano quando portavo il caffè ai miei vicini di flebo, in attesa del mio turno, dov’erano quando li ascoltavo mentre singhiozzavano di ciò che la malattia gli aveva tolto? Una volta, un’amica aveva il forte desiderio di un caffè, così glielo portai, ma lei non si era ancora abituata al suo incontrollabile tremore, si dimenticò del problema, così il caffè oscillò e ci bagnò entrambe. Le tenni allora ben stretto il polso, mentre l’infermiere cercava una cannuccia. Non ci dicemmo nulla, ci guardammo negli occhi intensamente, io continuai a stringerle forte il polso e lei poté bere da quel bicchiere. C’era, in quello sguardo, un dolore e una rabbia che ci legava e ci univa, lei una docente universitaria, una ricercatrice, che si vedeva macchiata di caffè e costretta a bere da una cannuccia. Credo che la compresi come mai nessuno, e lei, finito il caffè, mi disse: «Non si può bere un espresso con una cannuccia! Scusami, ti ho sporcato le scarpe». Sorrisi e chiusi con un «Già… Non ti preoccupare», e buttai il bicchiere di plastica. Le persone, nel mio mondo, finiscono per legarsi così, per piccoli gesti che restituiscono il senso alla vita. Dov’erano dunque questi novizi della malattia, che s’attaccavano a una nuova speranza per non diventare handicappati come gli altri, perché è questo retrogusto che mi ha sempre dato la nausea. Una volta, chiacchieravo con una madre che non capiva perché la figlia non riuscisse a stare composta e perché mettesse le gambe nelle posizioni più assurde, piangendo e lamentandosi con versi incomprensibili, visto che non riusciva a parlare. Ma io sapevo perché, lei aveva dolore, lo stesso mio dolore, probabilmente nel mio caso più attenuato, solo che io lo potevo comunicare, così spiegai alla madre cosa chiedere al neurologo. E allora mi parve così offensivo che questi altruisti dell’ultima ora, mi venissero a raccontare cos’è la malattia.
Quando avevo 16 anni, m’innamorai di un ragazzino che aveva qualche anno di più, con quello strano sentimento che si prova solo a quell’età. Ricordo che discutevamo sempre con grande passione di politica, beata gioventù. Capitò che in non so quale caso, organizzata una manifestazione, lui si preparò a provocare le forze dell’ordine in prima fila. Io espressi il mio disappunto, sentenziando, poiché anche da adolescente non ero molto normale, che “il ribellismo è anti-rivoluzionario” e citai Pasolini sulla questione. Quando, malmenato sotto la carica della polizia, finì in ospedale, chiesi di poterlo vedere, ma lui mi respinse. Fu un grande dolore, ma non cedetti sulle mie posizioni, perché io sono fatta così da sempre, e gli affetti vengono dopo le idee, la mia dignità intellettuale, la mia integrità.
Capitò lo stesso anche per la questione della CCSVI. Quando non mi sentii più gradita, diciamo scomoda, io decisi che non avrei messo più piede in quel centro: a due settimane dalla laurea stetti così male da trascinarmi, così andai al primo pronto soccorso. Fu un altro grande dolore, un’altra inguaribile solitudine. Questo mio essere così integerrima nella mia dignità di persona, questa mia intransigenza, che travalica ogni aspetto affettivo, è, proprio per questo, fonte d’indicibili sofferenze. Non dirò che è giusto, dirò che sono fatta così, dirò persino che in ogni caso, pur restando apparentemente ferma nelle mie posizioni, non sono capace di smettere di amare. Succederà ancora, probabilmente farò lo stesso errore, se così possiamo definirlo. È che ho un pessimo carattere, ma vorrei essere amata per quello che sono.
Un viaggio di sola andata, una nuova casa, una nuova vita, un nuovo entusiasmo, perché ogni cosa nuova è da me vissuta con grande fervore. Tutto mi appare come una grande meraviglia, non torno indietro, vado avanti, ciò che siamo stati non lo saremo domani, corro, simbolicamente continuo a correre, come quando giocavo a pallone e praticavo l’atletica leggera, perché ho fretta e per me domani è già troppo tardi, il domani non esiste, “è oggi che nasciamo”, scriveva José Saramago. Ogni mattina Matteo mi raccomanda: “e non correre, che tu hai l’acceleratore facile”. Forse questa è la metafora della mia vita, vivere con l’acceleratore facile. Nonostante le avversità, ho scelto di non togliere niente alla mia vita, di smetterla con le privazioni, di cedere ad ogni vizio, perché la vita non sia solo fatica, sacrificio, perdita.
Non dirò che rifarei tutto, che non ho rimorsi o rimpianti, dirò che ci passo le notti insonni, che piango le persone che ho perso, che mi commuovo per quello che avrei potuto fare, che avrei potuto dire, per gli abbracci che non ho saputo dare, per il tempo e le occasioni che non ho saputo cogliere.
Chiamata a un consulto dalla psicologa padovana, le parlai delle umiliazioni subite a un colloquio di lavoro. Lei m’invitò a denunciare la cosa: «Perché non utilizzi la tua penna da giornalista per far venire fuori queste cose vergognose?». Io continuai a fissare la scrivania e risposi: «Non si può stare sempre in guerra». E solo allora alzai lo sguardo e la fissai come per farle vedere nel fondo dell’occhio le croci di chi ho lasciato indietro, come per dirle “ma non vedi le nostre vite mutilate? Io non ci voglio tornare in trincea!”. Ma non poteva conoscere la mia storia, la mia attività in prima linea per i diritti dei malati e dei disabili, le posizioni scomode che avevo continuamente assunto. Il bello di vivere in un posto in cui nessuno ha idea di chi tu sia e da dove tu venga, è che puoi reinventarti una nuova personalità, senza riuscirci mai integralmente. Eppure il passato incombe, a volte persino ti schiaccia, ciò che eri, non lo sei più, né lo sarai, ma continui a camminare in punta di piedi, per non svegliare i più amari ricordi. E i miei ricordi sono occhi, migliaia di occhi che pure riuscirei a distinguere tra altre migliaia, sono voci e frasi rubate all’oblio, e più ho amato quelle persone e più quegli occhi e quelle voci mi accompagnano anche nella distanza, fisica, temporale. E se i ricordi sono assenze, mi devastano.
Ho ancora troppo da fare, da scrivere, da pubblicare, da conoscere, da sapere, ancora troppi viaggi da compiere, troppo da vedere, da toccare, da assaggiare, da godere, da piangere. Comunque vada, comunque il futuro andrà dipanandosi, cercando le sue trame, rimane sempre che, per fortuna, ho ancora tutta la vita davanti.
E non mollare mai. Auguri, con affetto.
Non ho scelta, mi tocca.
a volte le parole non servono!Auguri e un forte abbraccio Rina
Grazie Rina
Lo dico pubblicamante, felice di aver ricevuto ieri tanti meravigliosi auguri di buon compleanno, tanti pensieri, tanta vicinanza e affetto. Grazie a tutti voi che mi avete scritto, magari in privato o sui social, grazie per le bellissime parole che mi avete donato, sono rimasta assai piacevolmente colpita, grazie.
Grazie a Silvana per il tuo messaggio: “Cara Stefania, tantissimi auguri di buon compleanno. Grazie per quello che scrivi, per le perle che ci regali, sono un faro puntato sulla coscienza. E’ vero tante cose ti sono state tolte, ma per fortuna hai mantenuto intatto il dono di farci sempre meditare profondamente. E non è poco. Grazie per la tua amicizia. Un abbraccio affettuoso.”
Grazie anche a te, Gabriella per il tuo “Ogni tua parola, ogni tua frase solleva macigni, cara amica, e sotto… c’è un pullulare di emozioni, di desideri, di disperate speranze, di VITA, vissuta e da vivere! Ti abbraccio, stupenda trentenne!”
Grazie a Gerardo per “Non ti conosco di persona, ma sento che sei uno splendido esempio di vitalità, di forza della natura, e credo che conoscendoti ne avrei la conferma Vai avanti così nelle tue battaglie quotidiane per te e gli altri”, o ancora a Elena per “Auguri, mille e più auguri di un buon compleanno! Continua ad essere così come sei, a scrivere, ad indignarti, a rifiutarti di non vedere, di non sentire, di non dire… È quello che ci accomuna, è quello che ti rende speciale, è quello che in questo mondo, troppo spesso manca. Un abbraccio, buon compleanno”, ma anche a Sharon per il suo “Auguri splendore, devo dire che è sempre un piacere leggerti e come si dice in queste occasioni cento di questi giorni, ancora auguri, un bacio”, a Patrizia per “tanti cari auguroni stefania, baciabbracci e sereno compleanno!! ps: complimenti, splendido articolo, e che dire, sii sempre così, caparbia e degna e integra nonostante tutto, e apposta amata, anche per i prox 30 anni… poi per i restanti no problem, in un modo o nell’altro ci si arrabatterà” e a Stefano per “Tantissimi auguri alla squaw “Penna che graffia” !!!”.
Ma soprattutto grazie a tutti, veramente a tutti, tutti quanti!
E ora basta perché mi state rubando il mestiere 🙂
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