Sotto la Mole (2)

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Sono seduta al Bar del Corso e prendo il cappuccino con una brioche alla crema, fatti i prelievi. Aspetto che Valentin paghi la camera dell’albergo per poi andare insieme verso Pino torinese.

Corso Regina Margherita è una via assai trafficata, se mai esista in tutta Torino una sola strada che non lo sia: la capitale sabauda è, in effetti, “la città dell’auto”, e ogni volta che metto piede qui rimpiango i comuni veneti che restano effettivamente più a misura d’uomo, con il loro alto numero di biciclette e una densità di popolazione diffusa per tutta la provincia, che per contro non lascia spazi vuoti e disabitati, ma non conosce agglomerati urbani di tale prepotenza.

Il barista ha disegnato un fiore con la schiuma, la Torino che lavora prende un caffè al bancone di corsa, due anziane signore sorseggiano il loro in un tavolino più in là, ma senza fretta, discutendo tra loro in piemontese.

Mentre leggo le ultime mail sul mio smartphone, penso alle mie colleghe del Comune che ho salutato l’altro ieri, mentre si congratulavano per la nuova assunzione, e che dovrò imparare meglio la strada che congiunge Vicenza a Montegalda, nella cui zona industriale andrò a lavorare.

 

Valentin e io procediamo con le prossime tappe della giornata. Dalle colline di Pino torinese possiamo vedere le alpi, una vista stupenda da quassù, dove il comm. Ferrero ha fatto edificare il suo regno con tanto eliporto. Mi aspetto da un momento all’altro di vedere Willy Wonka, in attesa di diventare un “Umpa-Lumpa”.

Dopo il pranzo nella mensa aziendale chiudiamo con le visite. La nostra strada si divide: Valentin mi saluta con un “benvenuta in Ferrero” che la dice lunga su cosa voglia dire per ogni dipendente di una grande multinazionale far parte, piccolo ingranaggio della macchina, di un grande sistema. Ma sui fenomeni sociologici della faccenda, scriverò più avanti.

 

Sono un’amministrativa e mi occuperò di logistica in uno dei maggiori depositi europei, il terzo in Italia. Quella di Vicenza è la provincia più industrializzata del Paese, la crisi si sente, è palpabile, ma manca la paura del futuro perché si vive pensando che sia solo una parentesi a cui lo spirito d’iniziativa locale porrà rimedio e già s’investe nel progresso. La questione è assai complessa, il capitale va dove c’è già capitale, la classe politica corrente è inetta, assolutamente non in grado di fare quelle scelte coraggiose che servono laddove bisogna cambiare modello di sviluppo: ecosostenibilità, investimento nel lavoratore come individuo, minor costo del lavoro ecc.

Invece, abbiamo questi tecnocoglioni perché la corruzione è arrivata a un livello tale che abbiamo dovuto chiamare i figli di papà della Bocconi a farci raccontare di come siamo sfigati e monotoni.

Povera Patria, povera Patria davvero. S.C.

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