La vita viene prima (2)
“Il sistema comunicativo e sociale che rende possibile una qualunque cura è in ogni caso – che ne siano coscienti o meno – ‘un ordine negoziato’ (Strauss) fra il medico e il paziente, cioè il risultato dinamico di un ininterrotto processo di ordinamento, o meglio ancora di co-ordinamento, che si forma e si riforma fra essi nel tempo” (Fischer)
Ciò che trovo ancora e sempre più preoccupante è che ormai tanti pazienti mi contattino e discorrano con me, spesso iniziando la chiacchierata con un “tu che sei sempre molto schietta e dici le cose come stanno”, segnando così la differenza tra me e il loro medico.
La totale sfiducia verso il neurologo che li segue, che si evince, mi fa rabbrividire, ancor di più mi preoccupa il peso di essere stata insignita della carica di “bocca della verità”.
Nella maggior parte dei casi finirò con il rispedirli al mittente, consigliando un dialogo più aperto con il proprio neurologo e il recupero del rapporto con il medico di famiglia: spesso i miei buoni propositi s’infrangono contro muri di superficialità e ogni volta constato di aver scelto sempre il meglio per me, perché il neurologo non lo si fa con il martelletto e la risonanza magnetica, ma con le orecchie e l’intelligenza.
Altre volte, percepita l’angoscia dell’abbandono, procedo con alcune affermazioni di semplice buon senso: il principio è sempre il medesimo, la vita è tua, tua è la libertà di scegliere.
Mi chiama al telefono Anna (nome di fantasia), in preda al panico: sento nella sua voce tutta l’angoscia di chi sta sull’orlo del precipizio e tremano le parole, come se stesse per scoppiare a piangere. Il neurologo le ha comunicato che non ci sono più farmaci per lei, terapie che possano aiutarla, che sì, si potrebbe anche provare, ma non deve aspettarsi nulla.
Cerco di capire quale sia il linguaggio più consono, prendo le misure: nella totale disperazione non mancano parolacce nel suo interloquire, sa che io non mi scandalizzo affatto, e proseguo con lo stesso registro confidenziale.
«E allora? Qual è il problema?”, asserisco con decisione pur sapendo con chiarezza di cosa si stava parlando, «Approfittane per disintossicarti finalmente!» concludo con freddezza.
Lei è sorpresa dalla mia risposta, così gelida, così diretta «Sì, per carità… ma non mi puoi consigliare qualche neurologo per trovare magari qualche altra terapia, magari a Cagliari non la usano, lo sai che usano sempre le solite cose!».
Rispondo allora: «Fondamentalmente perché sono “le solite cose” che usano in tutto il mondo, sono quelle». Continuo: «Anna, il problema è che si dimenticano di dire ai pazienti che si arriva sempre a un punto in cui le terapie non servono più, sono studiate per colpire la fase iniziale e infiammatoria della malattia».
«Ma io ho una progressiva!» mi interrompe allora lei ormai disorientata.
«Ecco, appunto. Guarda, anch’io non rispondo più a nulla, nemmeno al cortisone dopo il Tysabri. Maledetto il giorno che ho deciso di avvelenarmi con quella roba! Comunque, ha solo anticipato il corso degli eventi, senti, ma chi se ne frega, ma goditi la vita senza pensare che se non ti pungi chissà cosa ti succede. Se ora ti pungessi, sarebbe lo stesso».
La voce è ora più attenuata e calma: «Ma io vorrei fare qualcosa per me stessa».
L’ho già vissuto questo momento, lei nemmeno s’immagina quanto dolore c’è nella mia sicurezza esibita, e anche il mio tono cambia e si fa più dolce: «Certo» rispondo, «Ma se vuoi fare qualcosa per te stessa non necessariamente devi passare per la pasticca. Fare qualcosa per se stessi significa prima di tutto mantenere un buono stato di salute complessivo per affrontare anche questa malattia. Significa che la vita viene prima delle flebo, delle punture, delle pasticche. Significa… tu fumi?».
«Sì purtroppo!» mi risponde come presa in castagna.
«Ecco, inizia a buttare quella merda e cerca di mangiare sano» dico allora.
Lei continua «Per quello guarda non c’è problema, ho un’azienda agricola e mangio i miei prodotti».
«Brava, serve una dieta sana, ricca di verdure, senza troppi grassi e altre schifezze. Serve che continui a occuparti delle cose che ti piacciono, che continui, nonostante la malattia, a fare tutto quello che ti dà soddisfazione» spiego.
«Sai, anni fa facevo quattro chili di ravioli e mi piaceva un sacco, quello sì mi dava soddisfazione. Ora non ce la faccio, troppa fatica…» mi dice.
«Cazzo, quattro chili di ravioli, ma non rompere i coglioni, ma è faticoso anche per un sano! Fanne un chilo, ma fallo, ma sai cosa significa continuare con quest’attività? Significa mantenere un’ottima manualità, è un esercizio importante per i movimenti fini. Se ci fermiamo siamo perduti, il cervello si atrofizza, abbiamo bisogno di stimolarlo continuamente. Fai riabilitazione?».
«Accidenti! Mi trovi tutte le magagne!» commenta.
«Conosco i miei polli, fai sempre attività fisica, fosse anche una passeggiata, quello che riesci e controlla i livelli di vitamina D, è importante, parla con i tuo medico di base» dico allora e chiudo spiegando meglio: «Tutte le cose che ti ho detto non ti guariranno, probabilmente continuerai a peggiorare come tutti del resto, ma ti aiuteranno a vivere meglio. So che ti chiedo di accettare l’inaccettabile, nessuno di noi ci riesce fino in fondo, ma la vita viene prima, prima della malattia stessa che è là che cerca di impedirti di godertela questa vita. Ma devi pensare sempre, la vita viene prima e lottare per questo».
La condivisione di una condizione apre il cuore, a quel punto l’altro si sente compreso, vicino, il legame si crea da solo perché tu sei come lui o lei.
«Grazie Stefania» mi dice commossa e felice «Grazie per le belle cose che mi hai detto, grazie davvero».
Questi momenti m’imbarazzano: «Comunque, come li fai questi ravioli? Di ricotta o di patate?».
«Tutti e due» mi dice ridacchiando Anna.
«Allora quando scendo a Cagliari ti avviso, mettimene da parte» dico scherzando.
Probabilmente il suo neurologo non le ha mai chiesto cosa le piacesse fare, cosa le desse più soddisfazione, cosa la facesse sentire viva. La ha controllato i riflessi, il fondo dell’occhio e la camminata. Ma una persona è qualcosa di più e per questo a volte preferiscono parlare con me della loro malattia, piuttosto che con il loro medico.
La mia neurologa conosceva la mia passione per la lettura, per la musica classica e il jazz, mi leggeva e questo faceva di me una persona.
Questo ancora mi commuove più del fatto che non conoscerò guarigione perché ancora una volta è che la vita viene prima. S.C.
Il tuo scrivere qui è uno sguardo limpido, tagliente, sull’orizzonte umano del vivere.
Tra le righe colgo il senso ontologico, schietto, delle tue pacate riflessioni dando alla vita quegli unici valori che spesso la quotidianità ci nega.
Fare ciò che ci si sente di fare, per cui si pensa di essere nati, dà significato alla vita, poco altro ha così profonde radici.
Ciao un abbraccio