Risvegli primaverili
C’è una luce diversa, da qualche giorno anche a Vicenza, che veste la città e la campagna nei dintorni, un tepore, un cinguettare, un germogliare della vita che affacciandosi in terrazza pare restituirci un tempo nuovo, irrinunciabili passeggiate al sole, indimenticabili brezze ed esistenze sfumate a pastello.
C’è che forse, è arrivato anche per me il momento di fermami un istante, di riflettere su questa panchina, al Querini, intiepidita dai raggi, di ritrovare una dimensione più serena, di riappacificarmi con l’esistenza che mi scorre davanti con la sua spensierata semplicità, allontanandomi dai solchi dolorosi che accompagnano i miei affanni e respingono sentimenti puri e spogli. La mia più grande delusione, che mi trascino come un fardello di condanna, è carica di indifferenza e viltà, ed io non chiedevo coraggio, ma verità, quella degli affetti, trasparente, immediata e spontanea verità.
C’è uno spirito d’aquila trattenuto nel mio pugno, un batter di ali alto nel cielo che non lascio dispiegare, è un attraversare di oceani questa mia passione letteraria che ti aggredisce e s’impone con violenza perché per vivere ho bisogno di lasciarti un’impronta, una cicatrice, un livido che ti dia un brivido, che ti scuota, che t’inumidisca gli occhi, che ti lasci un nodo alla gola.
Lungo la Riviera, mentre raggiungevamo l’agriturismo, il verde dei colli spalancava visioni naturali da paesaggi incantati e fiabeschi, lo stagliarsi di campanili veneziani, persiane vicentine aperte al nuovo risveglio primaverile, un silenzio, una pace che mi riprendevo, commossa, come per lavar via quel dispiacere opprimente, quel disincanto soffocante.
Domenica ho voluto portare qualcosa di sardo con me, un cocco d’ossidiana appeso al collo da una catenina d’argento, che come vuole la tradizione isolana ci protegge dal malocchio, e una giacca in velluto, perché mai sia dimenticato da dove vengo, di che sangue il mio cuore pulsa, di che storia, di che memoria ho respirato.
Sarà che qualsiasi nuovo percorso tu intraprenda, qualsiasi quotidianità nuova vai costruendo, qualsiasi processo d’appartenenza tu debba riavviare, per non perderti nel disorientante moto dell’essere, tu devi riaggrapparti alla tua identità e chiederti ancora “chi sono?”. E lo fai per resistere alle pugnalate, agli schiaffi, ai pugni della vita, perché le umiliazioni, i rifiuti, le porte sbattute in faccia non ti annientino e se le cose che accadono ti prostrano, devi comunque imparare a rialzarti ed è così che l’identità, la tua fiera identità, è la radice che ancora ti sorregge.
Ed allora, chi sono io, cosa sono? Sono una scrittrice, lo sento, lo vivo, perché non c’è cosa in questo mondo che da me non sia tramutata in versi, in racconti, nello scalpitare del mio estro letterario, io sono una poetessa, che abbia successo o meno, qualsiasi lavoro e professione mi dia da vivere, io non ho altra possibilità di esistere che tra le pagine che ho scritto e che scriverò. E non puoi sostenere di conoscermi se non mi leggi, se non sai con quale sguardo severo io ti scruti, con quale immenso abisso di emozioni io ti legga e ti attraversi mentre mi parli, mi sorridi, mi offendi persino. E non ho altro nutrimento che questo mio folle avvinghiarmi a ciò che di profondo, umano in te sopravvive, perché è in questo tracimare di emozioni che io vivo. Avrai paura di ciò che suscito, perché io non scrivo di primavere ed estati assolate e luminose, ma di inverni ed autunni freddi e cupi, non di fiori profumati, ma di foglie che marciscono per le strade, perché la vita è anche là ed io te la indico.
Mi devasta l’aridità del mio prossimo, mi toglie linfa, mi annichilisce, mi prosciuga, e forse allora che la sua mano che accarezza la mia, il suo calore, mi mette al riparo dalla miseria del mondo, e nel nostro amplesso colmo un vuoto che è insaziabile perché vivere davvero è l’ambizione più insoddisfatta di ogni uomo. Viviamo dunque.
È che al polso un gesto compulsivo mi riporta continuamente, ma oggi ho scelto di togliere l’orologio perché il tempo non si misura con le sue lancette e vivere di più non è concentrare le azioni, dimenarsi per massimizzare produttivamente una certa quantità di cose, piuttosto è cogliere l’incredibile, il meraviglioso protrarsi dell’esistere anche nella sua inedia, anche nel sua sterilità apparente.
«Tu sei veramente una persona speciale» – mi ha assicurato, una sera, lei, con estrema tenerezza ed insieme lucida analisi – «ma anche “ingombrante” nel senso buono del termine». Penso che mai termine fu più indovinato e significativo, e ha continuato dicendo «La tua personalità e capacità di comunicare crea una curiosità, ma una volta soddisfatta, può essere faticoso starti dietro». La mia risposta fu ancora più impietosa: «Inizio a sentirmi ingombrante anche a me stessa». Continuò allora: «Colgo nel tuo intimo una solitudine che opprime l’anima». Chiusi allora con queste parole: «Forse la solitudine è il prezzo da pagare per essere speciali». E forse aveva ragione la psicologa quando mi rimproverò le mie irrefrenabili tendenze carismatiche, forse sarebbe più semplice conformarsi alla banalità del vivere. Ma allora, che ne sarebbe della mia identità.
NB: in prosa ciò che ho già detto
Viviamo, mia Lesbia, e amiamo
e ogni mormorio perfido dei vecchi
valga per noi la piu’ vile moneta.
Il giorno puo’ morire e poi risorgere,
ma quando muore il nostro breve giorno,
una notte infinita dormiremo.
Tu dammi mille baci, e quindi cento,
poi dammene altri mille, e quindi cento,
quindi mille continui, e quindi cento.
E quando poi saranno mille e mille
nasconderemo il loro vero numero,
che non getti il malocchio l’invidioso
per un numero di baci cosi’ alto.
Catullo