40 anni che pesano
Oggi compio 40 anni, mentre nel mondo si affronta una crisi epocale, in cui la guerra torna a insanguinare l’Europa, e gli esiti nefasti di un modello economico e sociale, oltre che ambientale, che la mia generazione denunciava più di 20 anni fa, sono ora realtà palese a cui si accompagna l’inadeguatezza di una classe politica che non ha saputo rinnovarsi e che di questo disastro ne è colpevole. La mia è una generazione annientata, dal precariato, dalla gerontocrazia, dal nichilismo, i nostri tentativi di sollevazione sono stati ogni volta repressi, se non con il sangue, con il silenziatore automatico dell’egemonico unico modello imperante del capitalismo senza freni e senza vergogna.
E poi ci sono io, che combatto da 22 anni la mia battaglia personale con la penna e con il blog. Io che continuo a studiare persino ogni mio sintomo, che ho bisogno di capire, che la realtà la devo sezionare come su un tavolo autoptico, e con gli strumenti filosofici e politologici m’accanisco sui fatti, persino sulle relazioni mediche che mi consegnano.
Niente si rassicurante o consolatorio, è che l’approccio al divenire resta marxista e gramsciano, e nel conflitto delle cose esistenti impari a coglierne la sintesi e a leggerne con realismo la dimensione effettiva.
Proprio per questo, la morte di Nadia, una cara amica stroncata da un male impietoso all’età di 28 anni, non è stato per me soltanto un immenso dolore per l’ingiusta perdita di una mia quasi coetanea, ma è stato il crollo delle mie sicurezze di ragazza per quella condivisione di lotta per la vita ed entusiasmo del domani.
La Scienza dunque diveniva fallibile, e allora la mia riflessione fu subito incentrata su una domanda: perché quindi, accanirsi sui corpi, cosa rimane di tutto questo continuo tentativo di dare sollievo senza riuscirci, di credere, sperare, provare? Così ho tanto letto e studiato, come faccio sempre, e la verità, nuda e cruda è che davvero gira tutto intorno alla nostra capacità di essere semplicemente umani, alla nostra necessità di amare ed essere amati, e senza intelligenza emotiva ogni approccio terapeutico si svuota. La terapia può fallire, l’amore non fallisce mai.
Sulla mia libreria una feconda bibliografia si snoda dall’Umanesimo della Medicina all’antropologia medica, passando per la psichiatria e la medicina narrativa, aspetta che liberi i pensieri dandogli una organicità. Manca solo il punto di vista di chi è malato, per questo è importante che io scriva. Le mie ragioni trovano senso compiuto in tante pubblicazioni: prendersi cura, se non puoi curare.
E poi la questione vascolare nelle malattie neurodegenerative, troppa semplicistica superbia in pindariche ipotesi mai provate, e dall’altra il peggio della Sanità e della Ricerca, un conflitto costante di poteri, di spartizioni di finanziamenti, di ostruzionismi e di favoritismi non troppo celati. Tutto un avvicendarsi di scacchi in cui il paziente è quasi un impiccio.
Ma da tempo avevo deciso di non essere un paziente, di non essere una malattia da curare, un numero e una lettera stampato sopra il letto, di non essere una cartella clinica, ma di essere senza alcuna semplificazione una persona.
Ventidue anni di malattia sono un viaggio nella sofferenza, tua e degli altri, che riempe di significato ogni gesto, dove ogni parola resta, come un intarsio scavato sotto la pelle quale monito, e pesa, avvilisce e inebria. E io infine, mi guardo allo specchio e non mi riconosco, lo stato di immobilità di una parte costringe il corpo a deformarsi, si adatta, e a me pare di accartocciarmi, come nello spirito: metti via ogni ambizione, e per quello che avresti potuto fare e non puoi ti senti una persona sconfitta. Sconfitta portata a testa alta e schiena dritta sia ben chiaro, un vessillo issato a mezz’asta senza perderne l’orgoglio.
Perdere autonomia, indipendenza, dover chiedere praticamente tutto, proprio io, così rigida e impeccabile nel mio ordine maniacale, è un continuo lavoro d’ingegno per riuscire a essere comunque me stessa, dovendo smussare le spigolature del carattere, accettando l’imperfezione, l’errore, la disattenzione degli altri. Difficile per chi non lo perdona nemmeno a se stessa. Si cresce, si è imparato anche questo.
Eppure, sempre più oggetto di accudimento, io avevo un conto in sospeso con la vita, perché la mia propensione invece è sempre stata quella di accudire, di essere colei che dà. Volevo essere indispensabile per qualcuno. Così, dopo un mio percorso di consapevolezza, ho deciso, comunque e nonostante la disabilità, affiancata dal mio compagno di sempre, di essere madre.
Eleonora cresce, ha appena cominciato l’avventura della scuola primaria. Ha tanto di me, dal linguaggio alla creatività nel creare storie ad esempio, ogni giorno assisto al suo crescere con meraviglia.
Quando era più piccola mi chiedevo, accudita da più persone diverse, che ruolo mi avrebbe dato: beh, io sono, e sempre sono stata, la mamma, e per ora, la mamma è il punto di riferimento per ogni cosa e, nel dubbio, è il mio sguardo che cerca. La mamma ha bisogno, la mamma è fragile, come fa la mamma? Queste le sue preoccupazioni, perché è storia del mondo, i bambini si adattano alle imperfezioni di chi se ne prende cura.
Nella sua generazione nutro molte speranze: l’attenzione all’ambiente, al regno animale, il senso civico e di solidarietà, sin dall’asilo i bambini acquisiscono coscienza del loro ruolo nella società, dell’importanza del singolo nella comunità in cui vivono. Ai miei tempi, come dicono gli anziani, pensa un po’, la scuola per l’infanzia era pressoché un parcheggio in cui gli adulti avevano un ruolo di controllo. Mia figlia mi ha insegnato che giocare è una cosa seria, giocando si costruisce il futuro: ovviamente ho accolto nella mia libreria la pedagogia montessoriana e mia figlia inizia a farmi concorrenza nel numero di letture. Ho anche fatto un corso per la lettura a voce alta ai bambini.
E il mio futuro? Sono troppo consapevole di quella che sarà l’evoluzione della mia malattia per guardare al futuro con spensieratezza. Mi hanno insegnato che domani è già troppo tardi e che devo gestire i problemi dell’adesso. Non ho altra angoscia che trovarmi nella condizione di non poter dare abbastanza a mia figlia.
Per tutto il resto non ci rimane che vivere. Buon compleanno a me!